È un uomo affabile Luca Pignatelli, 52 anni, nato a Milano, figlio dello scultore Ercole Pignatelli, tra gli artisti italiani più noti e apprezzati nel mondo: un uomo affabile e anche molto sorridente. Un artista che conosce la sua strada ed è consapevole del suo lavoro. Oggi, al museo di Capodimonte di Napoli apre una sua mostra molto importante, che si potrà visitare fino alla fine di luglio. E per chi ancora non lo conosce sarà un’occasione per stupirsi e meravigliarsi di questo artista e che da anni fa una cosa molto importante: prova a rimettere la memoria e la storia al centro delle nostre vite. Lo fa senza intellettualismi e senza distanza. Lo fa lavorando su grandi teloni, che si utilizzavano nei magazzini ferroviari, con una tecnica che è tutta da scoprire e che ti sorprende. Lo fa da anni nel suo studio, alla periferia di Milano dove vado a trovarlo. È un loft grandissimo, su due piani, fitto di opere accatastate come fosse un atelier di un pittore dell’Ottocento. Solo che le opere di Luca Pignatelli sono grandissime, anche quattro o cinque metri per tre. Entri dal portoncino dello studio e mai ti aspetteresti di vedere quello che invece troverai: centinaia di metri quadri di opere che sono la sintesi di un lavoro di anni. Un lavoro denso, fatto con una discrezione, una passione che ha una sua misura e al tempo stesso una grande intensità.
Pignatelli mi accoglie quasi in punta di piedi. Il tempo di entrare e sei già davanti a una delle sue opere che ora sono in mostra a Napoli, Pompei, che occupa un’intera parete. E la prima cosa che ti viene da pensare è che la vorresti toccare quella tela, in questa giornata milanese, con una luce che si diffonde uniforme attraverso nuvole compatte e arriva passando dai finestroni del suo loft. Una luce che non brucia niente; rispetta quei colori scuri, quei teloni grandissimi dove di opera in opera scorrono bombardieri e volti di Afrodite, immagini pompeiane, boschi, grattacieli di New York e montagne che sembrano immaginate da un bambino americano degli anni Trenta che ha appena scoperto i fumetti.
È piena di spilli Pompei, che bloccano inserti di carta e altri materiali sul telone. Non è ancora terminata? Gli chiedo, ingenuo. E lui: «no, no, l’opera è finita». Sbagliamo entrambi. Avrei capito nelle centinaia di metri quadri del suo studio che Pignatelli è un genio dell’opera incompleta, un filosofo dell’indefinito, Lui le opere non le termina, perché non si possono finire, perché lascia buchi rammendati sulla tela, ma non rammendati del tutto, come a dare la sensazione che il materiale usato sia ancora provvisorio, sia in prestito da un mondo che ha radici lontane.
Gli chiedo come gli sia venuto in mente di dipingere su quei teloni che si usavano nei depositi ferroviari. «È accaduto molti anni fa. Li vidi per caso in un deposito ferroviario del sud e fu una folgorazione. Il sole sembrava volesse bruciarli». Da allora li compra dove può e dove sa. In Italia, ma anche in Europa. Li tiene piegati, nello studio, come si fosse in un negozio di stoffe, come coperte a disposizione per scaldarsi dal freddo. Un freddo culturale, storico: lo strano scollamento che abbiamo tra il presente e un passato lunghissimo che capiamo sempre meno, che è ancora più distante da noi dal punto di vista emotivo che da quello storico.
In fondo dipingere per Pignatelli è come difendersi da quel freddo della storia. Dall’arte che non puoi toccare e che puoi vedere solo come distanza, accademia, come meraviglia, persino come verità. Per questo le sue ossessioni sono bombardieri che minacciano la civiltà. O Pompei dove tutto scompare, sommerso da una distruzione che però congela una città come un bassorilievo, come un’opera d’arte che tutti vanno ad ammirare senza capire che riguarda noi, le nostre vite, come fosse anche il sito archeologico delle nostre memorie.
C’è talmente tanto in questo studio da lasciare turbati. E non è un discorso da critico d’arte. È diverso. Pignatelli dipinge Pompei, ma anche New York: perché? «New York è il contrario di Pompei, in apparenza. Sono i due estremi opposti dell’idea di città, ma estremi molto vicini». Perché questo prendere le immagini della scultura classica e trasformarle in dipinti? Togliere la terza dimensione? «Volevo trasformare la scultura in un dipinto, dare alla scultura soltanto due dimensioni».
Tra queste tele, davanti a Pompei, capisci che al di là del lavoro artistico c’è una lettura del presente, di cui tra l’altro Pignatelli è perfettamente consapevole. Viviamo in un declino che evoca di continuo la grandezza del nostro passato, della nostra storia, della nostra arte, ma senza saperla veramente. È allora non può che essere un declino senza memoria. Rischiamo di finire sepolti come fossimo proprio a Pompei, o bombardati dai B52 che lui stesso dipinge, finiamo in boschi che sono veri e propri labirinti, un’altra delle sue ossessioni: «dipingo boschi, perché mi sono perso da bambino in un bosco».
E questo suo studio è proprio un bosco di opere in cui finisci per perderti. Attraverso questi avanzi di archeologia industriale che sono i teloni che cerca ovunque, c’è l’antico e c’è il contemporaneo. Se non fossi sicuro che le sue opere sono ammassate alla meglio, come in qualsiasi altro studio d’artista, direi che c’è persino una logica nel suo modo di disporle e di conviverci. Perché quella è anche una casa. C’è il suo studio, c’è la cucina, la sala da pranzo, il salotto. Come in un’abitazione qualsiasi. Solo che attorno e sopra tutti questi elementi del vivere quotidiano ci sono questi paesaggi di montagna che sembrano quelli di un pittore del primo romanticismo, ci sono le bighe con i cavalli. E al piano di sotto dello studio ci sono le prove su carta su cui Pignatelli lavora prima di passare alle tele.
Hanno qualcosa di misterioso. Sembrano opere astratte, con colori e geometrie che sono tutte nella sua testa. Ma ti colpisce il suo modo quasi discreto di mostrartele, con leggerezza, e persino stupore. In lui non c’è mai quell’arte tormentata che è diventata una necessità, una cifra per molti artisti. O forse io non la vedo. Però vedo opere che in realtà sono specchi. Come se tra queste opere ci fosse una chiave per capire quello che accade ogni giorno fuori di qui. Tutto prende un altro senso qua dentro. O forse il suo senso vero.
Perché non tasformare questo studio in un museo? Ci sta pensando: «In fondo le opere vanno viste in questo modo, come le vedo io ogni volta che mi metto a lavorare. Senza un ordine e senza un vero e proprio tema espositivo». Aggiungerei anche con luci quotidiane e imperfette, ben lontane dall’illuminazione di un museo che sembrano perfette per illuminare quei colori, la trama grezza delle tele, le imperfezioni, gli strappi: «non so se vorrò cucirli. Non ho ancora deciso».
Sulla tela dedicata a Pompei, c’è una parola stampata: Italia. Il sommerso, la potenza di quello che siamo stati, oggi è un serbatoio vuoto di verità. Pompei è un luogo che scrive ancora il nostro destino, anche con la sua decadenza, il suo disfacimento che sta diventando il simbolo del nostro degrado culturale ed esistenziale. Ma anche in questo Pignatelli ha un suo modo positivo di leggere le cose: «gli elementi in disfacimento identificano nel segreto la nobiltà del nostro Paese», dice.
E usa un termine che mi piace per descrivere forse quella che è l’essenza del suo lavoro. La chiama: «corruzione temporale». È come se Pignatelli avesse deciso che quell’incompletezza quei frammenti possano trovare un luogo che non è quello dei musei, ma è quello degli spazi che abitiamo e in cui ci muoviamo ogni giorno. Se la modernità ha sterilizzato l’arte, lui cerca di fare il contrario. Dipinge angeli (bellissimo e grandissimo quello che incombe sul suo tavolo da pranzo), angeli di carta incollati sui teloni. Usa colori che «non vado a prendere nei negozi per pittori, per artisti, ma dal ferramenta». Dal ferramenta, cerca i colori per raccontare in un altro modo l’arte classica; nei depositi delle Ferrovie, le basi e le tele per contenere e accogliere tutto questo.
L’occhio va a cercare l’insieme, e poi vede gli inserti che lui aggiunge, che sono corde di rafia, asole di cuoio grandi e piccole, scritte prestampate sulle tele, con i numeri di serie che si usavano per inventariare quei materiali, perché tutto serve a ricordare che la materia è sempre segno e memoria.
«Il lavoro di molti artisti è quello di sperimentare “materiali” già utilizzati da altri, ponendosi quasi in una posizione di post produttori rispetto a ciò che la storia dell’arte ha già prodotto». E quest’uomo che ogni giorno trova il modo di produrre l’arte antica sembra divertirsi tra questi fogli, queste opere. C’è sempre armonia nel suo lavoro. Anche se è un lavoro di strappi, di cuciture, di colori scuri, un lavoro dove il suo sguardo alle volte è malinconico. E dove capita persino che non ci sia pittura, che basti già quello che si trova sui teloni. Dice: «la prima volta che mi sono imbattuto in uno di questi grandi teloni ferroviari ho intravisto immediatamente quello che già contenevano di un’opera: la parte finita e quella non finita. Il dipinto e il non dipinto».
Pignatelli è uno così. Riscrive la scultura mettendola sulle tele, riscrive la storia dipingendo su materiali che già hanno una storia e non cerca la sintesi di nulla: semmai di far convivere il passato e il presente, dando una possibilità anche al caso, come fosse un tiro di dadi. Facendo in modo che una parte di lavoro possa venire da sé, inaspettata.
Alla fine, dopo avermi mostrato l’alluminio che imita la neve, le corde che si fanno redini per bighe di color argento, e dopo avermi fatto perdere dentro quei paesaggi vertiginosi di aerei e locomotive a vapore, Pignatelli mi mostra una sua opera ancora. Sta sotto uno strato di dipinti, uno sopra l’altro come tappeti orientali: un albero della vita, pieno di interruzioni, di incertezze volute. «È il mosaico di Otranto», mi dice. Lo guardo, ha la stessa arcaicità del grande mosaico della Cattedrale di Otranto, composto nel XII Secolo. Anche in quel tempo lontano la rilettura del passato era un problema da risolvere. Si scelse di raccontare storie pagane e storie dalla Bibbia attraverso un disegno scarno e apparentemente ingenuo, eppure potentissimo.
Il passato è un problema da risolvere anche per Luca Pignatelli. Spesso l’arte contemporanea è difficile, come la è la musica contemporanea. Gli artisti e i compositori sono molto colti, élitari, e lo spettatore o l’ascoltatore per emozionarsi hanno bisogno di un lavoro di studio e di comprensione delle opere. Pignatelli è coltissimo e perfettamente consapevole di quello che fa, ma con le sue opere le mediazioni intellettuali non sono tutto. Ci si può emozionare anche senza sapere quale sia il suo modo di vedere l’arte, di progettarla e di pensarla. Mi chiedo se anche in letteratura ci può fare qualcosa di simile. Forse è vero che tutti i grandi artisti come Pignatelli sono un punto di partenza. Sono motori che si accendono e producono pensieri, idee, possibilità, correnti positive. Basta semplicemente sedersi davanti a queste opere, guardare e cominciare a pensare.