TRA REVERIE E SOGNO: I DIPINTI DI LUCA PIGNATELLI
Donald Kuspit

“Il sogno”, scrive Gaston Bachelard, “nasce dall’animus, la rêverie dall’anima. Il dramma della rêverie, senza accadimenti o storia, ci dà il vero riposo, il riposo del femminile”1. Mentre il sogno è “contraddistinto dagli accenti duri del mascolino”, l’“essenza” della rêverie è femminile. Spingiamoci oltre: il sogno è duro perché si confronta con il reale, che è duro, con la speranza di trasformarlo in qualcosa di malleabile e flessibile, così da poterlo rimodellare a propria misura. Il reale resiste all’assimilazione, ma il sogno lo spezza in frammenti d’immagine che è possibile manipolare a piacere, creando l’illusione di padroneggiare la realtà. La rêverie, al contrario, parte da ciò che non è reale, da un riposo trascendentale, e si manifesta a volte come nostalgia, a volte come una sorta di grazia gentile, che scende sul reale a suggerire che esso non è tutta la storia di ciò che esiste, e a modificarlo così che non sembri più inevitabile.

Nei dipinti di Luca Pignatelli la locomotiva, il corno, l’aeroplano, il grattacielo sono fondamentalmente mascolini – fallici, in effetti – come il loro carattere duro, metallico e aggressivo suggerisce. Così le colonne dei vari templi in rovina che raffigura, il dirigibile sospeso nel cielo sopra la via Appia, i maestosi cavalli che sembrano fissati al loro posto per tutta l’eternità, e perfino le teste classiche di Afrodite ed Eros, antichi simboli di amore eterno. Perché è chiaro che si tratta di illusioni artistiche – così come l’amore che rappresentano è una sorta di illusione – scolpite nella pietra. Il tempo ha eroso la loro presenza e fatto dubitare della loro divinità, eppure ha reso la loro fondamentale materialità – una materialità mascolina molto dura – assolutamente evidente.

Ma Pignatelli copre con un velo di malinconia questi oggetti drammaticamente fallici, antichi e allo stesso tempo moderni. Li avvolge nel pathos del crepuscolo, un’atmosfera piuttosto cupa che ammorbidisce gli oggetti mascolini così che sembrano misteriosamente femminili. Quello che perdono in drammaticità guadagnano in intensità emotiva. Quello che perdono in chiarezza guadagnano in profondità.

Diventano una questione di sentimento quanto di fatto, in effetti più una questione di sentimento che di fatto, perché il crepuscolo non si solleva mai, così che gli oggetti rimangono indeterminati e ossessionanti, la loro presenza meno inevitabile, meno decisiva. Nelle abili mani di Pignatelli diventano squisite chimere, meravigliosi miraggi. La loro durezza non ci terrorizza più, perché sono diventati nostalgici, l’elusiva sostanza della memoria – sempre una forma di lutto – invece che solida realtà. Visto attraverso le lenti scure di Pignatelli, il mondo storico è una sorta di Ade – uno spazio dove la morte è vissuta e rivissuta. I quadri di Pignatelli sono una rivelazione della caducità implicita nella vita, nascosta nelle cose meccaniche come nell’arte, che è presumibilmente l’“eterno presente”, secondo la definizione di Sigfried Giedion. Nei lavori di Pignatelli, questa irrevocabile transitorietà diventa il crepuscolo permanente in cui le cose sono inglobate – un’ambra scura in cui sono sospese, come in un incantesimo. Non si sveglieranno: senza l’atmosfera ambrata che ne preserva l’apparenza si dissolverebbero in polvere, confermando che sono in effetti morte da lungo tempo – che appartengono a un passato remoto, e pertanto sono più assenti che presenti. In verità, il fatto che siano virtualmente solo ombra conferma che sono la sostanza dell’assenza, o almeno di un’ambigua presenza.

Pignatelli è in spirito un archeologo, come Scavi dimostra: è un’immagine evocativa dello scavo del Foro romano – una fotografia della scena trasferita in un’atmosfera cupa, resa più profonda e intensa, trasformata nell’ossessionante memoria della grandezza che fu Roma una volta. Pignatelli estrae immagini familiari da un passato sconosciuto, presentandole in tutta la loro morbosa transitorietà, che l’artista rende monumentale, a conferma della loro importanza archetipica – della loro collettiva, profonda rilevanza umana. Parte dalla fotografia di una cosa o di un evento, che diventa un motivo ricorrente, trasformato in un’astratta parvenza di sé. Le sue immagini sono ombre di ombre – di cose e di eventi che sono diventati fotografie sbiadite, insidiosamente tragiche e ironicamente nobili, perché se hanno perso immediatezza hanno guadagnato la grandiosità delle rovine. Per Pignatelli la fotografia è un documento storico che può essere reso emotivamente risonante dall’arte. La fotografia non è arte, ma il catalizzatore di un’animazione che può essere espressa dall’arte. L’artista interpreta soggettivamente la fotografia, in sé un atto meccanico, ricreandola come dipinto organico – un dipinto gestuale molto sottile e complesso – che diventa un emblema enigmatico. Gli oggetti fotografati diventano forme arcane, che fanno solo fugacemente riferimento alla realtà storica, per quanto riconoscibile come “storica”.

I dipinti di Pignatelli hanno un aspetto ferito, come se le sezioni e i rattoppi della tela – cuciti insieme in modo ben visibile – fossero vecchie bende che trasmettono il dolore della perdita, segnalando la presenza del tempo, di fronte al quale tutto è perduto. Il fondamento materiale dell’opera è stato strappato e riparato, come se un terremoto l’avesse scossa. Le sezioni sono come placche tettoniche, temporaneamente costrette a stare l’una accanto all’altra. Il punto di incontro è segnato da cuciture come faglie. Possono essere squarciate, suggerendo la mancanza di stabilità, il carattere frammentario del dipinto. È come se Pignatelli avesse ricomposto i frammenti di un vaso antico, ricostruendo l’immagine che lo decorava. Dato che molte di queste immagini appartengono a una storia relativamente recente – per esempio alla seconda guerra mondiale – l’artista sembra suggerire la rapidità con cui la realtà diventa memoria, spezzandosi in frammenti d’immagini simili a un sogno, che solo l’arte può ricomporre.

In Eroe piangente, 1997, stracci macchiati di pittura – essi stessi gesti pittorici – formano una toppa lacrimosa sull’occhio destro dell’antica divinità dolente, che senza dubbio piange la perdita del suo potere, la rovina in cui è caduto nel mondo moderno. I bombardieri tedeschi che volano nel cielo – sopra la serena, maestosa natura italiana – in molti quadri non sono più potenti e minacciosi come una volta, come lascia intendere L’arc en ciel, 1998, che documenta il precipitare di uno di questi aerei. La condizione dell’Italia è in effetti il ricorrente, ossessivo significato sotteso ai lavori di Pignatelli, come la scritta “FS-Italia-FS” stampata in Trena, 1996, esplicita. I suoi dipinti di soldati e bombardieri tedeschi – per esempio JU 87, 1998 – sono forse una sorta di mano di calce passata sul ruolo dell’Italia nella seconda guerra mondiale? L’Italia di Pignatelli sembra essere tutta rovine classiche e meravigliosa natura – una presenza passiva, persino inerte, sotto gli aeroplani che si levano in alto, attivi. Pignatelli suggerisce forse che l’Italia, femminile, è stata violentata dalla Germana, maschile? Afferma che sotto pressione l’Italia rimane sempre elegante? Che l’eterna Italia resiste alla storia (come l’eterna Roma) rimanendo essenzialmente la stessa, imperturbata, intatta, persino virginale, pura, immacolata, a dispetto di qualunque aggressione venga commessa contro di lei, di qualunque crimine venga perpetrato sul suo suolo, nel suo cielo?

Non del tutto, forse niente affatto. Perché Pignatelli – come Polveriera e L’ultima nevicata, entrambi del 1997, ed Esplosione a San Lorenzo rendono evidente – si occupa della metafisica della morte, non della storia della morte. Si occupa dell’inevitabilità ontologica della morte, non di particolari atti dell’umana capacità di distruggere. Pignatelli è un escatologo, usa immagini secolari per esaminare sacre cose estreme – inesorabili realtà esistenziali. Per Pignatelli, come Polveriera e L’ultima nevicata dimostrano, il mondo si fonda sul non-essere, è internamente ridotto in polvere e spoglio, fatto di nulla, sbiancato nell’oblio oltre il buio della morte. Pignatelli non si occupa di realtà fisica, ma della desolazione dello spirito umano che conosce la possibilità della sua stessa fine. I suoi quadri articolano la tensione irrisolvibile tra l’individualità e la morte. L’individualità è rappresentata dai templi e dai treni, dall’aeroplano e dall’arte – da tutto ciò che è stato realizzato dallo sforzo e dalle capacità umane, dalla cultura e dalla tecnologica che costituiscono la civilizzazione, sia pure ironicamente. La morte è rappresentata dall’atmosfera espressionista che offusca ogni cosa, persino la natura, per quanto luminosa rimanga subliminalmente, per quanto qualche fuoco fatuo dello spirito sembri rimanere vivo in essa.

I dipinti di Pignatelli si occupano, in forma simbolica, di ciò che il sociologo Daniel Bell chiama “l’assillante senso di mortalità, la realizzazione della negazione, l’annichilimento della più grande conquista (dell’uomo), in quanto uomo, la sua autocoscienza, il suo Io”2. Se, come scrive Bell, “la difesa fondamentale contro la morte è la fantasia dell’onnipotenza”, allora Pignatelli presenta simboli di onnipotenza – aeroplani che competono con gli angeli, treni che si muovono più veloci e sono più potenti di qualunque animale, e forse soprattutto templi agli dei che gli esseri umani inventano a loro immagine, avverando così in un sogno sociale il proprio desiderio di onnipotenza – in un contesto di morte, trasmesso dalle sue atmosfere cupe, annichilenti. Con tutta l’illusione di grandezza insita negli aeroplani, nei treni e nei templi, essi rimangono oggetti finiti a confronto con l’infinita atmosfera che li avvolge nella sua indelebile disperazione.

Voglio suggerire che Pignatelli è un maestro di fine secolo della Scuola metafisica, che è stata il contributo determinante dell’Italia alla prima arte moderna. Pignatelli la estende in un nuovo territorio sociale ed emozionale, in parte attraverso un uso attento dell’immaginario dei media, in parte grazie alla sua eccellente tecnica pittorica – attraverso l’intelligente integrazione di queste due componenti in immagini che sono altrettanto ossessionanti e misteriose di quelle della Scuola metafisica. Il termine “metafisico” ricorre spesso nei titoli dei quadri che Giorgio de Chirico dipinse tra il 1913 e il 1919, e più tardi il pittore definì “metafisico” il lavoro che fece con Carlo Carrà. Si intendeva descrivere un’atmosfera, non un sistema di pensiero, e Pignatelli approfondisce l’atmosfera di solitudine aggiungendovi una nota di terrore, rendendola più tragica. Ci aiuta a comprendere meglio la metafisica della solitudine mostrando come essa informi la storia pur trascendendola. Argomenta convincentemente che il senso di solitudine spinge gli essere umani a creare storia, e che la solitudine è tutto ciò che rimane di una particolare storia dopo che questa si è conclusa, lasciando dietro di sé rovine e memorie, perché tutti i dipinti di Pignatelli – e le memorabili rovine cui ha dato una vita emotiva – sono pieni di solitudine.

De Chirico diceva che “ogni opera d’arte seria contiene due diverse solitudini: una solitudine plastica e una solitudine metafisica”3; la prima deriva dall’“ingegnosa costruzione e combinazione di forme nell’opera”, la seconda è inconscia – un’emozione fondamentale, che riconosce il senso di isolamento dell’uomo in generale e in particolare dell’uomo moderno. Pignatelli ripensa il desolato spazio metafisico di de Chirico – lo spazio della solitudine, abitato, quando contiene qualcosa, da manufatti piuttosto che da esseri umani – in termini sociali largamente moderni, liberandolo dai toni classici e sommessi di de Chirico. Del maestro metafisico Pignatelli elimina gli estremi, spesso crudi, di luce vivida e di buio netto, e li sostituisce con un chiaroscuro ricco di sfumature – una patina eloquente – rendendo lo spazio nel suo complesso più sottile, pur senza perderne il dramma e approfondendo l’atmosfera di solitudine, rendendola anzi più interiore ed intensa.

Fatto forse più cruciale, Pignatelli non produce immagini incongrue – figure bizzarre e giustapposizioni – come faceva de Chirico, ma le ritrova nella società, per sua natura assurda e terrificante nella sua quotidianità. Gli aeroplani e i treni di Pignatelli sono già rovine oscure, nonostante tutta la loro sinistra, minacciosa immediatezza, tutta la loro aura di terrore. Non dobbiamo aspettare che passino millenni per vedere le rovine del mondo moderno: sappiamo già come apparirà quando gli archeologi del futuro lo riporteranno alla luce e ritroveranno le fotografie che ne costituiranno il residuo maggiormente rivelatore. Pignatelli ci permette di approfondire la nostra percezione del significato metafisico della vita, e ci dimostra che l’arte è ancora capace di mediare questo significato, pur ricordandoci che esso è già evidente nelle nobili rovine dell’arte antica.

 

1 Gaston Bachelard, The Poetics of Rêverie, Orion Press, New York 1969, p. 19.

2 Daniel Bell, The return of the sacred?, in The Winding Passage: Essays and Sociological Journeys 1960–1980,

Basic Books, New York 1980, pp. 336-337.

3 Citato in George Heard Hamilton, Painting and Sculpture in Europe 1880–1940, Penguin, Baltimore 1967, p. 261.

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