Nell’era moderna “l’archivio” – sia ufficiale che personale – sembra essere diventato il mezzo più importante mediante il quale si raccolgono, si conservano e soprattutto si recuperano il sapere e la memoria storica. Tracce e testimonianze di ogni genere, attribuite anche a eventi come la Seconda Guerra Mondiale o la caduta del comunismo, ad esempio, hanno dato il la a una riconsiderazione dell’autorevolezza della “verità storica” (nel suo senso più stretto). Se una volta gli archivi altro non erano altro che una neutra registrazione del passato, oggi sono certamente un mezzo di “storicità” essi stessi. Eppure, come nota astutamente Derrida in Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, versione stampata della lezione “maledetta” tenuta a Londra nel 1994, la natura di un archivio dev’essere sia autorevolmente trasparente che autorevolmente dissimulata. L’autore infatti scrive: “Non ci sarebbe, invero, desiderio d’archivio senza finitudine radicale, senza la possibilità di un oblio che non si limiti alla rimozione”. Sottolinea poi, in nome di una “qualità” definita metaforicamente come “violenza archivistica”, e che rappresenta un momento cruciale del suo saggio, il modo in cui gli archivi possono essere contemporaneamente “tradizionali e rivoluzionari”, e in grado di determinare, attraverso la loro struttura (l’archiviazione), il proprio contenuto ed il rapporto di questo con il futuro. Gli archivi, dopo tutto, sono sintesi di tracce conservatesi a partire da un evento puntuale, e mai il fatto nella sua interezza. Ci sono sempre informazioni che si sono perse per la strada o sono andate “bruciate”, di cui non cesseremo mai di sentire la mancanza.
Gli archivi esprimono una verità comprensibile?
Bene, ai nostri giorni sembrerebbe che questo dipenda totalmente dall’osservatore (e qui ci si riferisce sia all’autore che ai vari testimoni nel corso del tempo). Gli archivi, più di ogni altra cosa, sembrano essere diverse composizioni dialogiche tanto di una memoria, quanto di un oblio collettivi.
L’opera di Luca Pignatelli, sulle prime, appare come un archivio composto da bellezza e forma “simboliche”. Tuttavia, come si suol dire, ogni decisione estetica è anche una decisione morale (e/o politica).
Spinto dal “desiderio compulsivo, ripetitivo e nostalgico di ritornare alle origini, al luogo più arcaico dell’inizio assoluto”, che Derrida descrive come “il mal d’archivio”, l’artista accumula libri sucittà, arte, architettura e storia, ma anche le cose del vivere quotidiano, oggetti decorativi e mobilia del passato, indipendentemente dal loro diverso periodo di fabbricazione. Esposti con cura, anziché semplicemente conservati, gli oggetti da collezione, insieme ai suoi lavori ancora in corso, trasformano lo studio in una microscopica riproduzione indoor della sua testa. Un “teatro della memoria” e, al tempo stesso, un territorio psicografico dell’adesso, che contiene, alla maniera del “cassetto delle curiosità”, una raccolta di tipologie di “oggetti” (anche in- corporati nell’architettura dello spazio) i cui confini categorici devono ancora essere definiti. E ciò, insieme allo spazio dello studio e agli artisti che ci lavorano, plasma il “pezzo” assoluto di Luca Pignatelli, del quale spesso vengono presentati scorci in varie mostre.
Giocando con la simmetria e con le ripetizioni, con la costruzione e con la frammentazione, con l’archiviazione e con il caos, Pignatelli apre un’imprevista gamma di possibilità ibride con modalità tanto “formalistiche” quanto “concettuali”. La bellezza è essenziale per il suo mondo, ma non solo come portatrice di gradevolezza estetica, bensì anche come metodo per addolcire i “fatti”. Luca è decisamente un “classicista”, per il suo apprezzamento dell’organizzazione ritmica che vediamo nelle pose dei suoi potenti nudi antichi sia maschili che femminili. Tuttavia, anziché seguire il principio del “classicismo” – un approccio al mezzo fondato sull’imitazione dell’antichità e sul presupposto di una serie di valori attribuiti agli antichi – egli lo viola. Come si può notare nei suoi recenti “dipinti” di sculture, la duratura grandezza delle composizioni geometriche viene disturbata dalle vere e proprie fratture dello sfondo e dai “sostegni strutturali” che tengono insieme il dipinto. A completamento della composizione, una serie di metaforiche “mancanze” nella tela o nella carta sono palesemente e sensualmente mescolate tra loro con i primi piani delle riproduzioni delle sculture. Questo accoppiamento formalistico tra gli sgraziati, eppur vivaci, assi (orizzontale e verticale) e le aggraziate curve delle sculture raggiunge un risultato molto attuale e quasi radicale. Attraverso la manipolazione visiva delle forme e dei significati l’osservatore viene imprigionato in una rete di ambiguità simili a quelle che si trovano nel precario mondo reale. Al tempo stesso, la dignità senza tempo e la calma rassicurante delle figure antiche – scolpite nel marmo – sono contaminate dai concetti del “fragile” e dell’“effimero”. Gli eroi di oggi possono essere gli antieroi di domani. I monumenti dei giorni nostri sono tanto condizionali e consumabili quanto le persone o le qualità che essi richiamano. Attraverso un contrapposto contemporaneo, le Sculture 2010 di Pignatelli riescono a creare “fluidità” non all’interno della posa (come aveva fatto molto tempo prima Prassitele), ma all’interno della “storia” e del “fatto storico”.
Un ulteriore, fondamentale elemento che ritroviamo nell’opera di Pignatelli è, nel suo senso più ampio, la “proporzione”. Attraverso il processo di riappropriazione delle proporzioni fisiche e concettuali tra le varie immagini, l’artista crea la propria tecnica archivistica per comprendere l’umanità. La procedura di lavoro inizia con l’estrazione delle fonti originali, eppure confiscate,trovate nei libri che colleziona. Varie serie di immagini, direttamente contrapposte le une alle altre, vedono la luce e immediatamente generano inattese narrazioni da cui derivano le complessive logiche creative del Pignatelli. È difficile dire se le immagini siano assemblate proporzionalmente rispetto alla loro forma o al loro contenuto. Molto probabilmente sono assemblate proporzionalmente rispetto a entrambe. Tuttavia, se guardiamo alle sorprendenti “coppie”, una cosa si chiarisce: queste contrapposizioni sono il nucleo centrale dell’opera di Pignatelli e, insieme, la sua marcia per la re- sistenza verso il predominio del Passato, unico e solo, al nostro progresso presente e futuro.
Il termine “analogia”, che viene dal greco “αναλογία” e che si riferisce etimologicamente alla proporzione, indica anche il processo cognitivo del trasferire le informazioni da un soggetto particolare (l’analogo o fonte) a un altro soggetto particolare (il bersaglio). Rispondendo al nostro invito, Luca Pignatelli mette in mostra per la prima volta nella Galleria Poggiali e Forconi una serie di “collage” in bianco e nero realizzati utilizzando riproduzioni fotografiche provenienti dalla sua collezione di libri. Oltre a dipingere, l’artista lavora in questo modo da molti anni. Tuttavia questo gruppo di opere era rimasto per lo più privato. Sotto il titolo “Analogie” giustappone una riproduzione della Sfinge del Cairo a un’altra, forse risalente agli anni Cinquanta, di una montagna di forma simile, sovrastante di una stazione sciistica; un’immagine di aerei da guerra alla scultura della Nike di Samotracia che si trova al Louvre; un’altra di una stazione di rifornimento degli anni Trenta a Louisville, Kentucky, alla foto della casa di Arianna nel sito archeologico di Pompei o, ancora, una riproduzione fotografica del battistero di Siena a un parasole sulla spiaggia di Massa, in Italia, che ne ricorda le linee. Archetipi e segni di una civiltà del passato e del presente sono riorganizzati in un laboratorio di sofisticata casualità con il risultato di produrre un fruttuoso dialogo tra mondi e tempi distanti. Pignatelli qui afferma il suo diritto a giudicare autonomamente la Storia. Basato su forma e soggetto, come un pretesto, il suo peculiare archivio è al tempo stesso una mappa iconografica della cultura ispirata da assunti estetici e sentimenti personali.
Questo modo di lavorare, “l’archiviazione visiva del mondo”, è diventata, negli ultimi anni, prassi comune tra gli artisti. I musei dedicano i loro spazi non solo a quegli artisti che agiscono come “curatori” della vita, presentando archivi raccolti ispirandosi a eventi di interesse personale, ma anche ad artisti che danno forma ai propri archivi immaginari. Tuttavia ciò che rende diverso Pignatelli è che il suo “archivio” non è né un qualcosa di pronto, trasportato dai cassetti di qualcuno allo spazio espositivo, né una narrazione fantastica appartenente alla sfera delle mani- festazioni fittizie. Piuttosto, le “Analogie” sono un commento efficace sulla formazione del sapere e, soprattutto, sulla formazione dei nostri “modi di vedere”.
La nostalgia, o “dolore del ritorno”, insieme alla continua ricerca del “sé politico” nel presente, si esprime nell’opera di Pignatelli come un’esplorazione della sfera caleidoscopica dell’identita umana e dei suoi cambiamenti all’interno del regno della cultura e della storia. Questo nuovo corpus riesce a esprimere non solo il sintomo delle agonie e degli impulsi umani più nascosti, ma anche la misura in cui la storia può mutare e trasformare i fatti. Sotto il suo controllo, il suo studio funziona come un apparato simbolico di appropriazione attraverso il quale ogni nuova opera prodotta ricontestualizza tutto ciò che prende a prestito per produrre nuove forme e significati. Archiviare e Dipingere, nel suo caso, sono un’azione performante orientata in direzione del tempo e lo spazio. Un mantra essenziale che comprende il tributo, l’intertestualità e il travisa- mento, attraverso i quali Pignatelli ci invita a confrontarci con la vita quotidiana. La virtuosità della disposizione delle forme trovate, in questi lavori, viene integrata e “ingegnosamente” con- trapposta alla produzione di un significato “storico” e “politico” incerto dovuto alla sintesi inattesa delle diverse entità tematiche. Eppure, al tempo stesso, il rapporto tra queste due virtù forti, che talvolta può rivelarsi conflittuale, si risolve in un accoppiamento dinamico che dà all’opera la sua sorprendente peculiarità.
Le paradossali “Analogie e Sculture” di Luca Pignatelli sono come un veicolo per comprendere l’“essere esistenziale” nel presente. Cosa sarebbe l’evoluzione senza la follia di quei pochi che hanno conservato ciò che ritenevano eccezionale per tramandarlo alle generazioni successive? Che cos’è la “storia” se non differenti serie di preferenze individuali sintomaticamente disposte in modo da coesistere e seguire una traiettoria fianco a fianco? Collezionista e archivista ap- passionato di vestigia di una vita passata, Pignatelli riesamina i concetti bipolari di bellezza, sapere e potere. Le sue composizioni, a prima vista spesso seducenti e serene, rivelano poi im- prevedibili elementi visivi che intervengono come “cicatrici” dell’attualità sul volto di ciò che appare come eternamente invulnerabile e sacro.