Forse fu decisivo l’impatto con le belle foto del manuale di Giovanni Becatti sull’arte dell’età classica. Per una
liceale quindicenne, in epoche distanti dai format televisivi e dai viaggi economici, l’impatto con il Galata
morente e i frontoni attici, sommava due tensioni esistenziali: il viaggio e il passato. Così l’arte, attraverso
quelle fotografie, correva incontro agli adolescenti sollecitandoli a svelare il loro mondo interiore, le segrete
pulsioni verso un monumentale classicismo.
Grandi immagini, tradotte dalle riprese fotografiche secondo l’antica tecnica della fotoincisione su clichè. Riprese
museali di primo Novecento: un saggio dosaggio di illuminazione da atelier, tesa a restituire profondità alla
scultura, di ritocco fotografico su negativo, necessario per correggere le tonalità ortocromatiche del bromuro
d’argento; e soprattutto la perizia di una scontornatura (al pennello, in biacca sul negativo, o più facilmente,
con incollata una mascherina ritagliata), così da seguire, forse inconsciamente, le indicazioni puro visibiliste
di Heinrich Wölfflin, in Fotografare la scultura (1896-1897). “Una scultura antica possiede una veduta principale
[...] e il suo effetto è annullato se le si sottrae il suo contorno preminente. [...] Non sarebbe dunque affatto superfluo,
una volta tanto, accordarsi, all’interno di una cerchia più allargata, sul modo in cui si devono fotografare le opere
plastiche, e allo stesso tempo educare nuovamente l’osservatore a cercare la veduta che corrisponda alla concezione
dell’artista. Non è corretto che un monumento plastico si possa guardare da tutti i lati”.1
Forse fu decisiva, allora, la raccolta di fotoincisioni tedesche dei primi del Novecento dell’Università Suor Orsola
Benincasa di Napoli, fondata da Benedetto Croce come Magistero femminile: capolavori della scultura classica
che nei grandi corridoi dell’antico convento evocano suggestioni d’antico, cadenzando il passo delle giovani
donne vocate all’insegnamento primario con valori visivi ed etici al tempo stesso, richiamati dalle fanciulle
dell’Eretteo così come dall’Heraion di Paestum.
Certo fu decisiva, a richiamare l’emozione delle immagini note, l’impressione della “stanza sognante” preparata
da Luca Pignatelli al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove le pitture vascolari divennero ampi schermi
montati a coprire pareti. Una presenza contemporanea ma così dentro un modo di leggere l’antico, da evocare
risonanze profonde in noi curatori museali: e non è un caso che a promuovere gli artisti contemporanei al
MANN sia uno storico dell’arte esperto in didattica museale come Marco de Gemmis.
A preparare l’ingresso di Luca Pignatelli all’Istituto Nazionale per la Grafica, fu dunque un itinerario di preparazione
esistenziale, una sorta di percorso critico attraverso opere notissime, capolavori dell’arte antica riletti
attraverso immagini anch’esse molto note. Come dire, la vulgata fotografica dei grandi capolavori che diviene
opera di intima risonanza per lo studioso, e di intima modificazione per l’artista: maieutica, per rendere consapevoli
questi stati d’animo, fu la visione delle collane di ferro agglutinato sugli ingrandimenti esposti a Firenze nel 2010.
Pignatelli interviene su opere di fotografia, di incisione, di grafica; parte dai fondamentali delle nostre collezioni,
del nostro status museale, per un intervento che lungi dallo stravolgere, approfondisce i nodi stessi della visione
dell’opera d’arte. Per questo, per la suggestione che su di lui esercitano le tesi di Wölfflin, per la forza che le
immagini sulle quali lavora esercitano sulla sua visione, siamo convinti di ospitare nel nostro Istituto l’ultimo puro
visibilista. Sarà con noi non soltanto per una mostra calibrata sulle nostre sale e sul nostro patrimonio, ma anche
per una operatività nella nostra Stamperia, che diventerà rituale per gli artisti contemporanei.
1 Ed. italiana a cura di B. Cestelli Guidi, Mantova, 2008, pp. 11-12.