Luca Pignatelli ( Milano, 1962), è conosciuto in Italia e nel mondo per le sue immagini a carattere archeologico e per un processo di raccolta, recupero, cura e editing iconografico della storia e dell’arte. Con le sue opere, dominate da senso della proporzione e da un emozionante connubio di serenità e malinconia, classicità e modernità, bellezza e povertà, possiamo confrontarci nell’immediato presente per dare un senso non solo e non tanto al passato della civiltà occidentale quanto al prossimo futuro dell’humanismus nell’era della globalizzazione digitale. In tre decenni l’artista ha raccolto un archivio eterogeneo di immagini memorabili, collettive e universali, in cui si riconoscono manufatti e segni figurativi di epoche antiche e moderne, testimonianza di civiltà antiche e del progresso industriale. Sono riproduzioni fotografiche che l’artista recupera a centinaia, selezionandole da pubblicazioni di varie epoche, recuperandole tra bancarelle e gallerie di antichità, con una “cupidigia” –ne ha scritto Bonito Oliva già nel 2014- che imparenta la sua ossessione a quella del collezionista. Per meglio definire la sua ostentata ricerca di ‘frame’ o “icone” del passato, immagini strappate tanto all’oblio quanto alla presunta verità storica- si è parlato di archivio e di violenza archivistica. Marina Fokidis, legge in questi termini la febbre da archivista che avrebbe contagiato Pignatelli: “Spinto dal “desiderio compulsivo, ripetitivo e nostalgico di ritornare alle origini, al luogo più arcaico dell’inizio assoluto, che Derrida descrive come il “mal d’archivio”, l’artista accumula libri su città, arte, architettura e storia, ma anche le cose del vivere quotidiano, oggetti decorativi e mobilia del passato, indipendentemente dal loro diverso periodo di fabbricazione. Esposti con cura, anziché semplicemente conservati, gli oggetti da collezione, insieme ai suoi lavori ancora in corso, trasformano lo studio in una microscopica riproduzione indoor della sua testa. Un “teatro della memoria” e, al tempo stesso, un territorio psicografico dell’adesso, che contiene, alla maniera del “cassetto delle curiosità”, una raccolta di tipologie di “oggetti” ( anche incorporati nell’architettura dello spazio) i cui confini categorici devono ancora essere definiti”. ( Nota, M. Fokidis, in Luca Pignatelli. Sculture/analogie, Milano 2010, p. 13) Eppure Pignatelli, non rispetta le regole né insegue il metodo dell’archivista puro o di professione. Contrario alla dispersione e all’oblio, come lo è chi patisce il mal d’archivio, egli non teme, però, di gettarsi nel caos alla scoperta dell’incongruente e dell’incoerente. Egli fa ordine, ma non tiene il registro, e non crede in un metodo precostituito e ideale. Piuttosto, costruisce artisticamente un nuovo ordine (un archivio-collezione, dove l’ordine è soggettivo e sempre modificabile), e per raggiungere il suo scopo si fa indicare i possibili e improbabili rapporti esistenti tra i segni e le forme –si veda ad esempio la serie di suoi lavori intitolati Analogie- dalla memoria involontaria. E’ grazie a questa situazione di produttivo disordine di cui parla Walter Benjamin in Parigi capitale del XX secolo che è dato custodire e rigenerare un senso che non sia illusorio e illuso nella triangolazione di bellezza, sapere e potere. ( Nota, in W. Benjamin, Opere complete, IX I passages di Parigi, a cura di Rolf Tiedemann, Torino 2000, p. 223) .
Secondo Achille Bonito Oliva, infatti: “Per Pignatelli l’arte non è mettere ordine nel mondo ma suggerire metodi di aggregazione capaci di sviluppare processi di conoscenza interna ed esterna, interiore ed esteriore. L’opera non è frutto di irrigidimento e di paralisi che essiccano ogni sedimentazione, piuttosto pratiche di appropriazione fuori dal principio di possesso, fondazione di un metodo capace di dare un metodo anche alla vita dell’artista”. ( Nota, Immanenza dell’arte nell’opera di Lica Pignatelli, Napoli 2014, p. 27) Se il suo approccio all’arte e alla storia è infine diverso tanto da quello dell’antiquario, che scava e riporta alla luce il reperto antico soggiogato dalla magnificenza estetica ed etica del mondo passato, quanto quello del collezionista, che ossessionato dall’oggetto si lascia sedurre e poi lo vuole possedere per estromettere il valore di merce, è perché in fondo il suo metodo è quello inventivo dell’artista che elabora l’impulso feticistico trasformandolo in piacere creativo. Da artista filosofo, Pignatelli guida mentalmente ogni suo impulso e ogni sua meditazione sull’accumulo e la messa in ordine del reperto e dell’immagine memorabile, con un lavoro di critica de-costruttiva e poi di ricostruzione sentimentale che vuole essenzialmente mutare di segno esperienze esistenziali come quelle della nostalgia e del lutto, del tutto normali e dominanti in chi vive archiviando il passato, collezionandolo, museificandolo.
Scrive, inoltre la Fokidis che “ Sotto il suo controllo, il suo studio funziona come un apparato simbolico di appropriazione attraverso il qaule ogni nuova opera prodotta ricontestualizza tutto ciò che prende a prestito per produrre nuove forme e significati. Archiviare e dipingere, nel suo caso, sono un’azione performante orientata in direzione del tempo e lo spazio. Un mantra essenziale che comprende il tributo , l’intertestualità e il travisamento, attraverso i quali Pignatelli ci invita a confrontarci con la vita quotidiana”. ( Fokidis, Ivi, p.23) Per Pignatelli accumulare oggetti, forme, codici, modelli del passato, appropriarsi di iconografie, significa poter dare senso al presente, nella prospettiva di un futuro che tenga conto degli errori e delle falsità celate dietro il linguaggio figurativo dell’eroismo, del sacro e della magnificenza di cui sono ricolmi musei e libri d’arte. Nelle opere di Pignatelli riccorrono immagini di statue greche e romane, busti in marmo, figure in pietra di eroi feriti, imperatori a cavallo o togati, ermafroditi e ninfe, nudi atleti, centauri con Lapiti, Pegaso e Afrodite, Diana e Hermes, Ercole e Apollo, e poi colonnati di templi pagani e piazze rinascimentali, grattacieli e dirigibili, aerei in picchiata, basiliche e grandi stazioni, foreste e laghi gelati. Opere di grande respiro concettuale e di magnifica fattura, quadri costruiti con l’accoppiamento di stampe su grandi teloni, lamiere, legni, sempre elementi poveri in netto contrasto con l’innegabile bellezza e autorevolezza di quelle figure. Dal collezionista lo differenzia pure il fatto che mentre quello è dominato dall’istinto tattile -come Tommaso deve poter toccare e possedere la cosa per assicurarsi che l’aura non sia andata perduta con la mercificazione- l’artista invece trasfigura la scultura in pittura, assegnando un primato all’ottico. Nell’opera, una volta che essa è compiuta, Pignatelli ritrova o assegna l’aura laddove con la riproducibilità e il valore d’uso è andata perduta, tanto nell’immagine –una ninfa o un imperatore- quanto nella cosa -un telone o una lamiera.
Le sue opere-archivio possono essere intitolate “Senza data”, perché nella costruzione del suo archivio viola per prima cosa il tempo. Infatti, nel suo caso l’arte è quella mossa effettuata nei confronti della realtà che permette di annullare la data dell’evento per proiettare nell’assoluto presente -quello dell’opera- ciò che è stato e che ha un peso nella nostra memoria collettiva e personale addomesticata a riconoscere solo dati e fatti secondo il tempo cronologico . L’artista con una mossa di imperio ci obbliga a ricordare come valori assoluti quelle immagini, quelle forme, quelle regole del gioco che hanno per lui un peso fondamentale nella costruzione della propria e altrui eredità e identità culturale. Qualcosa che pesando grava sulla sua coscienza, e ancor più sovraccarica e preme la sua memoria e la sua visione. Come se Pignatelli sentisse oltre l’ossessione per l’archivio e la collezione il dovere morale di farsi carico di immagini e forme responsabili della costruzione al di là del bene e del male della storia moderna, della civiltà occidentale. Immagini di bellezza e di potere, di virtù e di progresso. Ma è nella costruzione dell’opera che si prende carico di questo compito e rivela la sua posizione dialettica nei confronti della memoria e della storia, mettendo in gioco l’oblio. I materiali riciclati, poveri, recuperati - teloni, legni, lamiere, laceri tappeti, vecchie poltrone- sono l’altra faccia di una storia che ha messo sul piedistallo eroi e divinità, icone del potere e del progresso a discapito dei morti sul campo. Ecco cosa significano le bende, gli strappi, le lacerazioni, i segni del tempo imposti a quelle immagini di bellezza, ideologicamente perenni e immacolate, indistruttibile e inalienabili.
“Nell’opera di Pignatelli il tempo non è cronologico e linerare, ma piuttosto circolare. La storia non è archeologica ma retaggio culturale reso continuamente presente dalla immanenza dell’arte. L’opera infatti nella sua flagranza, per definizione elimina ogni distanza archeologica. Qui l’arte parte dll’arte. Pignatelli recupera iconiche stilistiche dell’antichità trasferendole nella tridimensionalità scultorea o del bassorilievo o nella bidimensionalità della pittura”, secondo il già citato Bonito Oliva (Ivi, p.27) . Così le sue immagini – Eracle con la clava, Satiro ed Ermafrodito, Cesare Augusto, Hermes, Afrodite e la ninfa Egea- sono “la base iconografica elaborata da Pignatelli nella concezione di un eterno presente dell’arte” (Ibidem). Le opere di Pignatelli, infatti, si nutrono di un fuori tempo, di un tempo differtito, quello di immagini che vivono di stratificazioni temporali, annullando, nella dimensione iconica della figura memorabile, lo scorrere del tempo, la sequenza di ieri e oggi, e soprattutto l’evoluzione iconografica. “La mia ricerca degli ultimi anni – afferma l’artista - è un ripensare che cos’è il tempo rispetto all’immagine, ai quadri. Io credo che oggi sia importante collocare l’immagine al centro di una riflessione sulla memoria. Con le mie opere vorrei rispondere alla domanda: cosa sta di fronte a un’immagine? Per me si tratta di un tempo plurale, un montaggio di temporaneità, sfalsate e quindi differenti”.
Il tempo storico e quello dell’arte -con i suoi resti e i detriti, con i suoi reperti e i relitti- sono radunati nel tempo presente dell’immagine, che è al tempo stesso immagine-archivio e icona. Ogni opera di Pignatelli riproduce oggetti memorabili, manufatti artistici che evocano sentimenti incolmabili di eternità e d’infinito, di cui siamo oggi destinatari e di cui avvertiamo profonda nostalgia. Contrariamente a certo uso pop e kitsch della magnificenza antica, come ad esempio in Warhol e Festa, Pignatelli avverte nel consumo di immagini una delle cause della perdita di valore della memoria. Più vicino all’uso concettuale di calchi e di riproduzioni, aggiunge all’evocazione tautologica della bellezza quella lirica e drammatica del sublime e della meraviglia, della malinconia e della emulazione. Usa materiali poveri per contrasto a immagini di aurea bellezza come volti di statue romane, monumentali ritratti di divinità o imperatori, cavalieri ed eroi. Immagini di figure scolpite nel candido marmo: figure intere, busti e teste di numinosa bellezza, riprodotte su diversi supporti –legni, lamiere, teloni, cartoni, pelli, gomme- con speciali tecniche di stampa a getto d’inchiostro. Spesso le sue ‘teste’, di età greca o romana, si presentano con gli occhi socchiusi, appaiono introverse e misteriose, lasciano ogni comunicazione in sospeso, facendoci intendere o sentire solo l’eco di pensieri alti ed emozioni sublimi, qualcosa di infinito e senza tempo. Conoscono, senza poterla ormai dire, la verità, anche quella della storia e del tempo che passa. Evocare la classicità significa per Pignatelli alludere a qualcosa d’incommensurabile, fare spazio a un desiderio di grandezza e di vastità sia spirituale sia concettuale, sia morale che estetica di cui ci sentiamo privati dal progresso, così come dal vano scorrere dei giorni, e ancor più dal consumo sfrenato e dalla perdita di memoria che ci condanna al banale e al volgare anche nella produzione di immagini .
Classicità, bellezza, gloria, regalità, parole così risuonanti in altre epoche, sembrano dei resti, impropri reperti, parole relitto senza nobiltà in una prospettiva priva di “eternità” e di “sacralità”. Ecco che un volto statuario sembra sapere e non poter dire cosa sia la gloria o la classicità, che cosa sia la bellezza e la virtù; o meglio, sa come e quando possa essere il potere virtuoso e come la virtù possa restare tale sposandosi al potere. Quel volto archiviato detiene la “verità” dell’ “origine”, ma ne fa mistero. E forse chiude gli occhi per non vedere la degenerazione, la perdita di valore e di senso. Riconosciamo in queste opere un’esperienza romantica della storia e della classicità; un’esperienza che viene però drammatizzata dall’uso di supporti poveri o industriali, carichi anch’essi di memoria, per una dialettica tra segni e materiali, tra arte anacronistica e arte povera, che permette a Luca Pignatelli di evitare la mera suggestione della citazione antiquaria, l’evocazione di una sterile atmosfera. In altri termini le sue immagini-archivio sono quelle di una classicità sempre viva e presente che non parla il linguaggio muto, inanimato della copia. Pignatelli sa restituire aura alle riproduzioni tecnologiche trasformando in icona senza data le immagini memorabili del suo archivio. Ogni figura comunica con l’inconscio personale e collettivo, facendoci avvertire un infinito svuotato di sacralità attraverso un desiderio incolmabile di senso che non corrisponde all’ideale verità affermata con l’esaltazione della bellezza ideale e l’ideale società del passato. Ma è grazie all’accostamento tra primo piano e sfondo, tra fondo povero e immagine illustre, che Pignatelli critica la celebrazione di ogni classicità e sua rinascenza, chiedendoci di posare lo sguardo sulle ferite e le lacerazioni inferte all’umanità durante le epoche più gloriose del nostro passato in nome e per conto della bellezza e del sacro. Citando ancora una volta Marina Fokidis: “ Collezionista e archivista appassionato di vestigia di una vita passata, Pignatelli riesamina i concetti bipolari di bellezza, sapere e potere. Le sue composizioni, a prima vista spesso seducenti e serene, rivelano poi imprevedibili elementi visivi che intervengono come “cicatrici” dell’attualità sul volto di ciò che appare come eternamente invulnerabile e sacro”. (Fokidis, Ivi, p. 23)