L’opera di Luca Pignatelli genera per gli astanti un campo di tensione fra prossimità e distanza. La sua archeo- logia delle forme e degli sguardi evoca la celebre immagine novecentesca dell’Angelus Novus che nella bufera si protende verso il futuro con il viso rivolto al passato. Per noi che siamo vacillanti, ci dice l’opera dell’artista, le icone della scultura classica sono il promemoria di un equilibrio perduto e perturbante, e le ferite e le crepe e le lacerazioni della città di Piranesi annunciano i segni della minaccia e dell’imminenza della bufera.
Nel presente. E nell’ombra contratta e raggelata del futuro.
Questo è il mio primo commento a Icons. Il secondo commento mette a fuoco il duplice impegno dell’artista, la natura bifronte della sua esplorazione dello spazio delle forme nel tempo. Luca Pignatelli è attratto dal vortice della nostalgia e accetta la sfida che qui consiste nel soffrire fino in fondo il dolore del ritorno a un qualche luogo dell’inizio o delle origini ma, al tempo stesso, l’artista resta fermo e intransigente nell’esercizio della resistenza al ritorno delle forme perdute. Noi non assistiamo inerti al cerimoniale e ai riti delle citazioni. Noi siamo convocati in prima persona nel teatro delle metamorfosi e delle trasformazioni. Verso il futuro, con lo sguardo mobile rivolto al passato.
Per questo, le forme perdute, le immagini delle sculture classiche, i grandi nudi maschili e femminili, i grandi nudi androgini, le masse dei grandi corpi di animali umani e non umani, i volti ambigui d’enigma, sideralmente remoti nel tempo, ci sono consegnati grazie alla custodia di un archivista o di un collezionista di sguardi che li conserva, tenendosi con forza e rigore a distanza.
Grazie alla distanza, il gesto dell’artista è il gesto che viola le forme, che le ferisce, le lacera, istituisce per loro confini mobili, le sottopone a un effetto di straniamento, le altera, giocando sul terreno insidioso in cui variazione e invarianza si mettono alla prova, in un duello senza fine, la cui posta in gioco è un tempo ritrovato, pieno di incertezza e segnato dalla beanza delle ferite. Gestaltung e Umgestaltung, come leggiamo nella scena delle Madri nel secondo Faust di Goethe.
Consideriamo ora più da vicino, nel terzo commento, la discesa di Luca Pignatelli nei meandri rischiosi e friabili della stratificazione archeologica delle forme nel tempo. La sua ricognizione genealogica dei fueros di Freud. Ed eccoci di fronte al grande repertorio di Icons. Nel grande repertorio non si danno objects trouvés. Si danno immagini modellate dal doppio movimento della nostalgia e della resistenza. Le icone delle sculture classiche, che sono sideralmente remote e che ci convocano nell’abisso dei tempi alle nostre spalle, sembrano come le stelle morte che generano un campo gestaltico che attrae e promette equilibrio luminoso. Del resto, la luce irradiata dal classico sopravvive al dileguare nel tempo della sua fonte e della sua origine. Ma le icone della forma classica non persistono nella durata senza essere contaminate e violate.
Il prezzo della persistenza, anche nel mondo delle forme, è proporzionale all’ammontare di ferite, di contami- nazioni, di lacerazioni cui esse, per essere preservate, devono essere sottoposte. Qui la tensione tra invarianza e variazione è massima. E Luca Pignatelli ci dice nel linguaggio di Icons che qualcosa resta. Qualcosa preserva l’immagine di una gravitas e di una venustas che hanno sapore vitruviano e, quindi, architettonico. Come restano, sempre nel duplice registro della prossimità e della distanza, le architetture di Piranesi, le sue vedute dell’urbs e della civitas, sfregiate e sospese in un intervallo temporale che ha il sapore della logica lucida del delirio.
Il quarto commento si avvale degli effetti dell’esercizio di resistenza dell’artista. E’ vero: qualcosa resta. Ma chiediamoci: in quale modo, in quale forma resta il qualcosa che resta? Risponderemo così: restano le icone nella forma di relitti. O di detriti. Di impronte e tracce e vestigia, del resto, sono fatte le memorie. Così, l’esercizio di resistenza evoca il grande motivo musicale dell’archivio. E, come ha osservato Marina Fokidis, il desiderio d’archivio è connesso alla possibilità percepita dell’oblio.
Il mal d’archivio, di cui ha parlato eloquentemente Jacques Derrida, esemplifica in ogni caso il desiderio di ritornare alle origini, “al luogo più arcaico dell’inizio assoluto”. La nostalgia, lo sappiamo, è il dolore del ritorno. E l’archivio è il teatro della memoria o, meglio, delle memorie. Le icone sono come fissate e sospese, come i coleotteri o le farfalle nelle teche del collezionista. Questa, e non altra, è la custodia del collezionista di repertori e lacerti, con il viso rivolto al passato che si protende verso un futuro segnato dall’imminenza della incessante bufera.
Ed ecco il quinto commento. L’abbiamo detto: se non vi fosse possibilità d’oblio e di dissipazione, non si darebbero desiderio di custodia, né pulsione d’archivio. L’imminenza della bufera dell’Angelus Novus è fisicamente percepibile dagli astanti che avvertono la sospensione del tempo, in cui si iscrivono le icone di Luca Pignatelli. Le icone di scultura e le icone di architettura. L’artista sa bene che non vi è valore che non sia esposto al rischio di perdita e dissipazione. E che ciò vale in modo intenso nei tempi in cui l’ombra del futuro si contrae sul nostro presente e accade che si avverta qualcosa come la dittatura del presente, che ci inchioda e ci intrappola nei nostri destini personali e collettivi.
Sono queste le circostanze in cui tende ad azzerarsi il senso del passato. Le circostanze in cui siamo indotti a una sorta di ipocrisia o ignavia cognitiva. Le circostanze in cui la chiacchiera governa i nostri modi di stare insieme. E a noi accade di vivere le nostre vite con il pilota automatico innestato. L’opera di Luca Pignatelli è incentrata sull’intransigente rifiuto di tutto ciò. Icons ci dice che non dobbiamo mollare. Che non possiamo congedarci dall’impresa mai finita del tentativo di trovare un qualche filo d’Arianna nel labirinto, dove si aggira nell’opacità dei meandri, minaccioso e fatale, un qualche Minotauro.
Icons ci dice che abbiamo la responsabilità di continuare, ciascuno a suo modo, nell’esplorazione dei modi, mutevoli, contingenti e situati, di make sense of humanity. Uno di questi modi è quello esemplificato al meglio dall’opera di Luca Pignatelli. Nel suo duplice impegno: nell’esercizio della nostalgia e nell’esercizio della resistenza. Come dire: qui sto, e non posso altrimenti.
E questo connette e rende congruenti, in Icons, le dimensioni plurali e spesso confliggenti dell’estetico e dell’etico. Come se una passione severa per la giustizia s’intrecciasse al sogno inesausto della giustezza di un mondo di forme e di immagini che offrono, nella memoria della bellezza perduta, a noi vacillanti, il loro filo d’Arianna.