“Ogni iniziativa sperimentale esige un’interpretazione delirante, estremamente lucida” (Klossowski). Il rapporto tra Luca Pignatelli ed il linguaggio poggia sulla considerazione che esso costituisce la realtà totale con cui confrontarsi, il punto di partenza da cui muoversi per eseguire la sperimentazione di una possibile lacerazione capace di fondare una nuova articolazione.
L’arte richiede sempre un’iniziativa sperimentale come l’approdo ad una forma capace di tramutare l’impulso della fantasia in un risultato oggettivo. La sperimentazione non riguarda semplicemente il campo della tecnica esecutiva ma piuttosto il metodo e dunque la continuità di un’ottica che non conosce insicurezza od esitazione. La pulsione dell’artista trova nel linguaggio il campo entro cui il gesto diventa tracciato evidente.
Nella misura in cui l’artista si muove sotto la spinta di una necessità personale, dunque non precostituita nel suo esito espressivo, richiede il coraggio di una “iniziativa sperimentale” che di per sé confina con uno stato delirante. Delirante significa uscire fuori dalle righe, oltrepassare la misura organizzata dalle acquisizioni precedenti del linguaggio.
Pignatelli è un artista che possiede la coscienza di tale condizione, la consapevolezza dell’eccedenza necessaria per fondare un’immagine personale. Per approdare al risultato della forma, l’artista si arma di un’estrema lucidità che lo porta ad un controllo del delirio senza però ridurlo d’intensità mediante il controllo della pura ragione.
Egli ha realizzato pitture e sculture che rappresentano la condensazione formale di una visione. Essere visionari non significa necessariamente alterare le simmetrie della comunicazione linguistica, ma semmai portarle in una condizione di corrispondenza col proprio immaginario.
La forza di Pignatelli consiste nella capacità di costruire un paesaggio di figure e di oggetti che non intendono nella propria alterazione misurarsi con i codici visivi della realtà. In questo senso l’artista non è riducibile alla matrice espressionista. Egli non ha risentimenti verso le cose che lo circondano. Ma armato da un’indispensabile senso di onnipotenza adotta la creazione artistica come strumento per costruire un universo autonomo e separato dalle cose stesse.
In tal modo le sue immagini non sono infantilmente trasgressive rispetto ai canoni di armonia, proporzione e simmetria. Non costituiscono un paesaggio di risentimento iconografico, puramente sentimentale, speculare al freddo paesaggio che circonda l’uomo. Pignatelli si pone rispetto al linguaggio nella condizione del costruttore che intende realizzare con armi proprie un mondo come volontà e rappresentazione della propria visione.
Senza il pessimismo di Shopenauer, Pignatelli utilizza il delirio lucido di un procedimento creativo tutto fondato sull’economia del linguaggio puramente figurativo e plastico.
Le pitture e le sculture posseggono la tensione plastica d’immagine che s’inscrivono sulla tela bidimensionale o nello spazio tridimensionale con la forza e la necessità delle proprie interne proporzioni. Un senso della costruzione assiste l’opera, realizzata sempre con la consapevolezza di un insieme che deve reggersi attraverso un’autosufficienza formale. Una forza verticale sorregge l’immagine, in quanto questa deve sfidare la legge gravitazionale, la possibilità di tenere in piedi un sistema di segni non arbitraria, ma che chiede regole proporzionate allo sforzo ed alle tensioni interne al linguaggio adoperato. Ogni opera richiede una particolare cura ed un’attenzione proporzionale alla fondazione della nuova forma.
Come Alice nel paese delle meraviglie, Pignatelli sa bene come sia indispensabile oltrepassare la soglia dello specchio prima della realizzazione di ogni opera. Tale passaggio preventivo garantisce l’artista di liberarsi dell’ottica quotidiana, del procedimento tradizionale, dello sguardo normalizzato ed infine della sorpresa che deriverebbe se egli adottasse l’arte come flagrante processo di superamento della realtà.
L’artiste supera la soglia dello specchio, del puro rapporto speculare con le cose, nel momento in cui adotta la decisione di essere artista, di farlo e di produrre immagini. Da questo momento per lui non esistono sorprese e nemmeno il ricordo di antiche regole. Egli assume una “iniziativa sperimentale”, che lo emancipa stabilmente da ogni condizione euforica e semplicemente trasgressiva e lo porta ad approdare alla fondazione di un universo iconografico assolutamente armonico con la sua fantasia.
Pignatelli tende sempre ad una forma totale, intendendo con questo l’approdo ad una corrispondenza tra sentimento e forma visiva. L’opera non designa mai la condizione del frammento, di un dettaglio che naviga separato da un sistema d’insieme. L’insieme è il risultato continuamente conseguito da Pignatelli, armato da una sensibilità vitale che lo porta sempre nella condizione del demiurgo.
Per questo egli sfida qualsiasi linguaggio, astratto o figurativo, in quanto sostenuto da un delirio spazio-temporale che lo porta sempre a saper stabilire le condizioni indispensabili adatte ad ogni specifica costruzione.
Egli adotta il doppio sentimento della nostalgia e della paura che lo porta a stabilizzare il nicciano pathos della distanza verso il linguaggio, l’unica realtà su cui e con cui costruisce la sua immagine. Nostalgia verso una Storia che sembra sempre più separarsi dalla natura e paura della violazione insita nell’iniziativa sperimentale, l’unica capace di riportarlo verso la fondazione mediante la forma di un sentimento naturale.
Infatti Pignatelli quando realizza opere con forme antropomorfiche, egli costruisce una condizione formale di simbiosi fra uomo e natura che permette la possibilità dell’integrazione e della continuità, uno scorrimento visibile tra le forme organiche della natura e quelle culturali rappresentate dall’uomo, dagli attrezzi che lo accompagnano, di guerra o di lavoro. Quando realizza sculture di oggetti o di forme arcane, utilizza una plasticità fortemente scandita nello spazio, per meglio celebrare la presenza del reperto oggettuale, umano o animale.
Ma tutte le forme hanno la forza di resistere anche fuori da ogni rimando, tasselli astratti di materie e colore che resistono per interna autonomia fuori da ogni dettato della memoria.
La volontà di potenza che regge la creatività di Pignatelli, lo porta fuori dalla possibilità di considerare l’opera come un semplice reperto della fantasia, dettaglio metaforico sottratto ad un’ipotetica totalità. La distanza gli permette il distacco necessario per armare il linguaggio nella sua potenziale intensità. Il pathos è insito nella consapevolezza dell’artista di sviluppare una lotta capace di portare il linguaggio in uno stato formale assolutamente inconcepibile prima del suo intervento.
La violazione della lingua storica dell’arte implica la sincera paura dell’artista che non lotta con i fantasmi ma con la necessità impellente di portare ad esistenza ed a vita formale impulsi attinenti alla natura divina dell’uomo, alla sua evidente capacità creativa. L’evidenza è il dramma dell’artista che deve sfidare il semplice aspetto fantasmatico dell’immagine e l’incredulità del mondo.
La ricerca di un possibile passato capace di far da fondamento che non cerca la sua pura celebrazione ma piuttosto il suo innevamento nel presente. Questo sforzo eroico sostiene tutta l’opera di Pignatelli, il quale cerca in tal modo di dare statuto di leggibilità a tutta la sua pittura e scultura attraverso il sostegno di una storia che non può essere rimossa ma piuttosto messa alla prova duramente mediante il proprio impiego.
In definitiva Pignatelli viola l’esistenza del linguaggio e del suo ottimismo coniugando un tempo totale che contiene quello iniziale della vita e quello finale della morte, termini appartenenti anche al destino dell’uomo. Nella tensione tra vita e morte, tra presente e passato, Pignatelli trova il tempo della resurrezione del linguaggio capace di fondare il senso eroico di un’immagine costruita nella sua ossatura. Qui non esiste l’apparenza deteriorabile della carne, ma lo scheletro polposo ed essenziale di un linguaggio durevole nel tempo. Da qui la libertà dell’arte, la sua espansione in una grande epoca di pace.
“Un distruttore che aggiunge all’esistenza” (Cioran). Questo è l’artista che al desiderio comune di bellezza aggiunge la cupidigia. La bellezza è sempre il frutto della nostalgia di una perfezione mancata. Elaborazione del lutto di una dimensione non facilmente raggiungibile e per questo vagheggiata. Un impulso diretto a sconfiggere l’orrore acquietato per la propria imperfezione, vita o morte.
La cupidigia dell’arte in Pignatelli è la pratica di un eccesso, rafforzata dal proprio prodursi nel sensibile. Una sorta di squilibrio, una deformazione raggiunta dalla massima concentrazione di forma. Questo è il versante drammatico della creazione artistica che non risponde ad una domanda, ad un vuoto sociale ma afferma ed impone una diversa e nuova realtà visibile che distrugge ogni possibile memoria di doppio, attraverso il linguaggio.
Un cenno imperioso dell’artista sgombra il campo di ogni apparenza che procede il suo lavoro creativo. Egli si mette all’opera con un sentimento iniziale di distruzione per poi incuneare in questo vuoto la presenza tangibile della sua forma.
Ecco apparire un nuovo spazio fisico e mentale: la bellezza della neutralità, l’affermazione di una forma lenta che non ama la superbia del rigore o la geometria della pura coerenza. Qui la bellezza nasce dal fatto che non esiste sopraffazione della novità o eleganza della citazione. Se esiste durata dell’opera, questo è dovuto a una durata etica del fare che non significa improvvisare ma semmai salvaguardare.
Pignatelli vuole salvaguardare arte e vita, senza sopraffare nessuno dei due termini. Costruendo il territorio di una nuova neutralità, in cui non esistono recinti dell’arte per l’arte o muri della politica. Qui si vuole neutralizzare la superbia dell’arte e la volgarità della vita con forme costruite.
Il carattere duraturo della forma artistica implica un senso della costruzione che non vuole essere cancellato dall’opera successiva, né duplicare metaforicamente la realtà esterna. L’arte è quel movimento ambivalente che gioca su presenza ed assenza, contatto e separazione, erotismo e distacco, atteggiamenti non contrastanti a complementari per affermare la diversa relazione con la realtà.
“Non si può sfuggire al mondo così bene che attraverso l’arte e non ci si può legare maggiormente come attraverso l’arte” (Goethe). Questo atteggiamento designa la posizione di Pignatelli, condizione filosofica che inizialmente sembra prendere le distanze dalle cose ma poi le adotta per costruire un ordine formale che designa la nuova realtà seppure attraverso una contaminazione di essa. L’ordine formale adottato non gioca sul puro accumulo, sulla presentazione di una casualità di assemblaggio che duplica metaforicamente la disseminazione quantitativa del mondo esterno. L’opera assume la cadenza fenomenologia contraddetta da un corposo ordine che la sostiene. Non il senso dell’accumulo, ma quello di una necessaria compenetrazione, seppure abitata da relazioni impreviste.
In Pignatelli, l’imprevedibilità formale dell’opera viene amplificata dalla consistenza dei materiali, talvolta dalla voluta improponibilità degli accostamenti, ed anche dalla elaborazione dei nessi che si spinge al limite dell’incastro e della geometria. Perché l’oggetto non si può eliminare, diventare l’effetto di una parvenza, piuttosto piegato ad un uso fantastico che da una parte ne riconosce la presenza tautologica e dall’altra ne sfida l’apparente passività d’impiego.
Da qui l’uso talvolta ironicamente monumentale, il suo trasferimento in una diversa scala, il suo impiego invertito tra chiuso ed aperto, la sua collocazione decontestualizzata. Non esistono oggetti privilegiati, quanto a ricorrenza o affettività, piuttosto stati di necessità che ne determinano l’uso a seconda del risultato da raggiungere.
La forma tende piuttosto a coniugare gli elementi per sollecitare un doppio processo di conoscenza, uno specifico riguardante l’opera e l’altro più generale riguardante le sue relazioni col mondo.
La nuova relazione non è stabilita attraverso la semplice differenza prodotta dall’inedito accostamento, quanto piuttosto dalla fondazione di un metodo formale reso ancor più evidente dall’attinenza dei materiali col mondo esterno. Tale attinenza evita la facile sorpresa e lo stupore conseguente, diventa un ulteriore tratto di sfida per l’artista che si allontana e nello stesso tempo rientra in gioco con le cose mediante la loro adozione che meglio permette la verifica del nuovo ordine formale.
Per Pignatelli l’arte non è mettere ordine nel mondo ma suggerire metodi di aggregazione capaci di sviluppare processi di conoscenza interna ed esterna, interiore ed esteriore. L’opera non è il frutto di irrigidimento e di paralisi che essiccano ogni sedimentazione, piuttosto pratiche di appropriazione fuori dal principio del possesso, fondazione di un metodo capace di dare un metodo anche alla vita dell’artista.
Questo non significa costringere l’artista regressivamente dentro la logica della poetica, dentro la coerenza metalinguistica dell’opera, ma semmai stabilizzare la leggerezza dell’essere dentro l’evidente consistenza dell’opera ed attraverso essa.
Questa non è fatta di accumulo, oggetto seppure formalizzato accanto ad altri oggetti quotidiani. L’ordine che senza rigidità governa l’opera si assume il compito di stabilire un confine tra due universi che vivono insieme ma nello stesso tempo sono governati diversamente.
Il metodo di Pignatelli non sublima lo spazio nella pura evocazione del tempo ma accetta l’ingombro dell’oggetto nella sua spessa fisicità, valorizzandola per accostamento ad altre fisicità certamente non affini per uso e destinazione.
L’artista è colui che adotta una sorta di processo radio-attivo per contaminare ed adottare l’oggetto quotidiano, già di per sé avvelenato dalla sua appartenenza storica. Un’altra storia più trasfigurante investe ora l’oggetto quotidiano, in quanto impossibile da riprodurre culturalmente. Ora l’oggetto conserva la sua vischiosità e anche spesso il suo decoro, ma viene piegato ed adottato per un uso trasversale che solo l’artista ne può fare.
Ma Pignatelli non pensa così di riscattarsi o di riscattare la storia, quanto piuttosto innescare processi formali capaci di produrre nel presente atteggiamenti di resistenza resi evidenti e lampanti dalla costruzione della macchina visiva, il suo funzionamento intorno fatto di relazioni di singoli elementi governati dall’idea della complessità e dell’unità nello stesso tempo.
Nell’opera di Pignatelli il tempo non è cronologico e lineare, ma piuttosto circolare. La storia non è archeologia ma retaggio culturale reso continuamente presente dalla immanenza dell’arte. L’opera infatti nella sua flagranza, per definizione, elimina ogni distanza archeologica. Qui l’arte parte dall’arte. Pignatelli recupera icone stilistiche dell’antichità trasferendole dalla tridimensionalità scultorea o del bassorilievo o nella bidimensionalità della pittura. Così Mitridate Re del Ponto, La Ninfa Egea ed Afrodite, Eracle con la clava, Satiro ed Ermafrodita, Cesare Augusto, Hermes, Biga proveniente dai Musei Vaticani costituiscono la base iconografica elaborata da Pignatelli nella concezione di un eterno presente dell’arte.
Da qui la centralità del grande quadro dedicato a Pompei, specificatamente alla casa di Lucrezio Frontone, che condensa dentro di sé i segni di un tempo che tramuta tutto in rovine, sigillate dal gesto creativo dell’artista.
Ma per Pignatelli la pittura non serve soltanto a progettare il passato bensì scardinare ogni distanza temporale e spaziale per fondare un territorio d’immagini sorvegliato dallo sguardo dello stesso artista. Prova ne è l’opera finale: un aereo, segno della modernità, che sorvola tra le montagne la famiglia iconografica dell’artista. Ecco l’immanenza dell’arte, tra coesistenza spaziale e differenza temporale.