Tutto cominciò nel 1978, quando il soprintendente Raffello Causa e il gallerista Lucio Amelio organizzarono la retrospettiva di Alberto Burri, un artista vivente. Prima di allora non era mai successo che nel Museo di Capodimonte irrompesse con tanta forza la contemporaneità. In quell’occasione, nel percorso museale che iniziava con la Crocefissione di Masaccio, attraversava il salone con i Tiziano della collezione Farnese, la sala con la Parabola dei ciechi di Brueghel, all’improvviso - tra la Flagellazione di Caravaggio e i trionfi barocchi della pittura napoletana del Seicento - appariva il Grande Cretto Nero, una maiolica dalle misure monumentali (cinque metri per quindici) del burbero maestro di Città di Castello. Fu uno choc salutare per chi guardava al museo come a un luogo aperto e vitale. Fu un trauma per chi si ostinava invece a difenderlo come inviolabile recinto sacro dedicato alle Muse. Il gesto perentorio di Burri diede così inizio a un dialogo originale e serrato tra passato e presente, che nel tempo è diventato una delle cifre di riconoscimento di Capodimonte. Dopo Burri, fu la volta di Andy Warhol, che nel luglio del 1985 nel salone dei Camuccini portò la serie dei Vesuvius realizzata appositamente per Napoli. A dicembre dello stesso anno, toccò poi a Joseph Beuys, che proprio a Capodimonte volle formalizzare il suo testamento artistico con Palazzo Regale. Un mese dopo l’inaugurazione della mostra, il 23 gennaio 1986, moriva a Düsseldorf. Burri, Warhol, Beuys diedero così inizio a una stagione strepitosa che porta i nomi di grandi protagonisti italiani e internazionali dell’arte contemporanea (Paolini, Fabro, Alfano, Buren, LeWitt, Kosuth, Pistoletto, Kounellis, Polke, Mattiacci, Merz, Cucchi, Kiefer, Schifano, Gilbert & George, Spalletti, Tatafiore, Paladino, Louise Bourgeois, De Dominicis, ecc.). Ora, nel salone dedicato a Raffaello Causa, Luca Pignatelli porta i suoi ultimi lavori e aggiunge un nuovo capitolo al grande dialogo d’arte.
MB LUCA,CHESENSAZIONISUSCITAINTEESSEREACAPODIMONTE?
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corpo di cui parlava Baudelaire. L’attenzione al lavoro dei miei antenati è ciò che più mi affascina e trasmette forza e intenzione alla mia ricerca: l’utopia mi piace ricercarla nel passato e non necessariamente nel futuro».
LA CONTEMPORANEITÀ, DUNQUE, NON PUÒ ESISTERE SENZA MEMORIA?
«La modernità si è costruita nel rifiuto della tradizione a fa- vore di una sperimentazione priva di risonanza storica. Un azzeramento dei linguaggi, una tabula rasa per iniziare a co- struire un nuovo ordine. Questa fase è diventata importante solo quando il rapporto con l’utilizzo del preesistente ha pro- dotto un pensiero. Credo che oggi il lavoro di molti artisti sia quello di attraversare e sperimentare “materiali” già utilizzati da altri, ponendosi quasi in una posizione di post produttori rispetto a ciò che la storia dell’arte ha già prodotto».
IL LINGUAGGIO DELL’ARTE È UN PROCESSO CONTINUO CHE NON PREVEDE AMNESIE, SALTI O TANTO MENO SCORCIATOIE. È QUESTO IL METODO CHE REGGE IL TUO LAVORO?
«L’uso delle immagini di cui mi approprio è un modo sereno e pensoso di orientarmi rispetto al tempo della natura, alla memoria che questo ci permette di contenere. C’è una pre- esistenza continua rispetto al mio lavoro e una conseguen- te ricerca di comunicare queste distanze, spesso talmente lontane da essere siderali, come una stella morta. L’uso di un soggetto, che io considero iconico, come ad esempio una figura del IV secolo, non vuol essere un avvicinamento di stile per la creazione di un’altra bellezza, ma la volontà di usare esattamente quell’immagine per provocare una cor- ruzione temporale».
LA TUA MEMORIA SI ALIMENTA ANCHE DI SEGNI E DI MATERIE APPARENTEMENTE CASUALI.
«Osservare figure intaccate da segni e da frammenti spesso astratti, materici o geometrici, mi consente di riflettere sul lavoro che si è condotto sulla materia stessa soprattutto dal- la metà del Novecento. Spesso, per esempio, rimango incan- tato a osservare le disconnessioni e le rotture che vedo sul manto di una strada: il mio atteggiamento è quello di colui che vuole guardare alla realtà con stupore. La meraviglia è un’alternativa al quotidiano; sta nella semplicità delle forme, quando percepisco la possibilità che qualcosa possa nascere. E spesso tutto questo accade casualmente. Dovremmo im- parare a misurare il caos, perché anch’esso ha le sue leggi matematiche».
IN QUESTI ULTIMI LAVORI HAI RAGGIUNTO UN LIVELLO DI GRANDE RIGORE DI FORMA E DI CONTENUTO: QUANTO È STATO DETERMINANTE IL CONFRONTO CON IL “MUSEO”?
«Non penso mai di produrre opere in senso astratto, ma cerco sempre di guardare al lavoro finito. È un percorso mentale più che pittorico. Il mio confronto con il museo va nello stesso senso di Cézanne quando dichiarava “dipingo
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per i musei”. Il museo è un cerchio, uno specchio che riflette insieme la tua opera e quella degli altri. È impossibile non tener conto dell’unicità del luogo, espressione di un valore collettivo slegato da un’arbitrarietà individuale. Il raffron- to con la sala del museo è come l’incontro nella piazza del paese, come un monumento che permette di riconoscere l’i- dentità di un posto o come un quadro che trasmette voglia di condivisione. In questo senso ho sempre più chiara l’idea di che cosa rappresenti per me il rapporto tra immagina- zione, fantasia, originalità e anonimato. È come se stesse prevalendo un atteggiamento asettico, volto a osservare tut- to ciò che si trova intorno per poi iniziare una selezione. È uno sguardo obliquo sulle cose che impone scelte precise a riferimenti che appartengono al mio mondo espressivo. In questi ultimi lavori la ricerca di una relazione con il tempo, apparentemente facile da individuare ma in realtà molto più complessa, vuole creare uno spaesamento atemporale, per provocare una riflessione su alcune forme, per me diventate tipologie, che acquistano forza proprio nel loro ripresentarsi sempre attraverso nuove letture».
QUESTA È LA TUA SECONDA ESPERIENZA A NAPOLI. LA PRIMA FU AL MUSEO ARCHEOLOGICO NEL 2007, E IN QUELL’OCCASIONE IL CONFRONTO FU CON LA CLASSICITÀ SOPRATTUTTO SCULTOREA. A CAPODIMONTE, LUOGO ECCELSO DELLA PITTURA, IL DIALOGO CON TIZIANO E CARAVAGGIO LO SOSTIENI CON OPERE IN CUI IL SEGNO E LA MATERIA PITTORICA HANNO IL SOPRAVVENTO SULLA MEMORIA ICONOGRAFICA.
«C’è un orientamento critico molto forte che si instaura tra un quadro e l’altro, ma anche tra artista e artista. Ad esem- pio, il ritratto di Paolo III Farnese Tiziano lo completa a Roma, dove Michelangelo lo vede: ne loda il colore, ma ne critica il disegno. L’accademia costituiva un tema centrale del Rinascimento, mentre oggi rimango sgomento a sentir parlare di un corpus disciplinare completamente frantuma- to. Secondo me questo è un dato importante, anche da un punto di vista esistenziale; sovvertire regole che sono pre- gresse alla tua volontà è importante perché si torna a con- siderare l’uomo al centro dell’opera rispetto all’accademia, che può essere il punto limite, il confine di un’esperienza artistica. Il Cretto di Burri, un capolavoro assoluto, non è possibile confrontarlo tecnicamente e progettualmente con uno dei cartoni di Michelangelo o di Raffaello presenti nel Museo di Capodimonte, anche se in realtà non è cosa completamente diversa, perché nella materia dei cartoni si vede già quello che nel Novecento sconvolgerà l’esperien- za dell’artista rispetto al canone. Burri esprime questo in maniera potentissima e grandiosa, anche se sta facendo il lavoro di un muratore. La sua opera è concetto, maestria di pensare e di cuocere una maiolica a gran fuoco. Avanzare, cambiare, sovvertire, reimpostare questioni che sembravano arenate: questo è il meccanismo che più mi sorprende e che porta a risultati che, spesso, superano le mie aspettative».
MI SPIEGHI CHE SIGNIFICATO HA PER TE LA PAROLA “ACCADE- MIA”, UN TERMINE RIFIUTATO DAL LESSICO DELLA CONTEM- PORANEITÀ?
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«Interpreto questo termine legandolo a connotati autobio- grafici: ho sempre avvertito una forma di ribellione nei confronti di un adeguamento a un codice o a un sistema prestabilito. Questa caratteristica è celata nella mia natura, allo stesso modo lo è anche nei miei lavori che sembrano appartenere a un canone classico. In realtà resto stupito ed esterrefatto quando scopro la presenza della sezione aurea in alcuni materiali che intendo utilizzare o la possibilità di poterci iscrivere una statua di Hermes. Questo accade per- ché oggi, per me, i modelli sono speculari a quelli utiliz- zati duemila anni fa. Nella contemporaneità il concetto di continuità viene meno davanti ad opere come la Fontana di Duchamp. Un’idea, la sua, che si colloca completamente ol- tre i riferimenti accademici, ma di cui si continua a parlarne tutti i giorni, a cent’anni di distanza. Ci sono molti modi di fare arte, ognuno sceglie la propria strada, la più conforme alle finalità che si è preposto. La generazione di artisti che ha frequentato l’accademia agli inizi del Novecento, ha dav- vero ha imparato a disegnare o a fare un bassorilievo. Oggi questi requisiti non sono più indispensabili. Mies van der Rohe disegnava malissimo, ma i suoi disegni sono straor- dinari, essenziali, puri segni del pensiero contemporaneo. A partire dalle avanguardie storiche, uno spostamento to- tale di direzione ha causato la distruzione della regola in favore dell’opera d’arte intesa come contenuto mentale per eccellenza. Questa stessa considerazione era già sostenuta da Leonardo che definiva la pittura “cosa mentale”, la sua stessa ricerca scientifica sulla natura inesplorata rappresenta un’opera d’arte: utilizza la matita per sviscerare la realtà. Questi valori durano fino al ’68, quando la rivoluzione cul- turale ha provocato un’esplosione di un libertarismo in tutti campi e in tutti i sensi, una proclamazione di indipendenza rispetto a un passato costrittivo, pieno di regole alle qua- li assoggettarsi. Sino alla terza elementare ero obbligato a portare un grembiulino blu e un farfallino legato al collo con un elastico. Uscivamo dalla scuola, marciando sotto lo sguardo imperterrito del preside in doppio petto gessato».
LE IMMAGINI DELL’ANTICO, CHE CARATTERIZZANO MOLTO DEL TUO PERCORSO, NELLE OPERE DI QUESTA MOSTRA APPAIONO ORA ANCOR PIÙ ESSENZIALIZZATE: NON È PIÙ CENTRALE IL MODELLO DI RIFERIMENTO MA È LA MATERIA STESSA A FARSI SOGGETTO DELLA RAPPRESENTAZIONE.
«La costruzione di una mostra rappresenta sempre un momento determinante, a maggior ragione se avviene all’interno di un grande museo. Trovo singolare la ten- sione narrativa reciproca che si crea tra un’opera e l’altra all’interno di un’esposizione. È importante vedere qual è la scelta che sta dietro, scoprire nelle grandi mostre come i lavori si cerchino tra di loro piuttosto che respingersi. Per quanto riguarda me, considero questa esperienza un’ottima occasione per mettere maggiormente in luce una temati- ca che già da tempo ho iniziato a rendere manifesta. Mi viene in mente il libro di Wölfflin, Fotografare la scultura, in cui tale questione è centrale: volevo cercare, attraverso la fotografia, di trasformare la scultura in un dipinto. Mi sembrava più giusto che l’opera apparisse nella sua realtà
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«È una sensazione di un forte coinvolgimento. Questa mo- stra rappresenta per me un punto di arrivo, ma anche una svolta per altre strade da percorrere. Il mio lavoro mi ha portato a indagare sull’importanza di ricondursi a una ter- ritorialità comune dell’arte, un luogo di segni e tipologie che ciclicamente ritornano a definire i confini, ma anche i possibili sconfinamenti. È un tema centrale e uno degli aspetti più pregnanti del mio lavoro attuale. Quando a Ca- podimonte guardo la Flagellazione di Caravaggio, penso a quella di Piero della Francesca a Urbino e proseguo a ritroso cercando rappresentazioni simili presenti anche sui crateri attici. Nell’arte vi è un contenuto fuori dal tempo, anche se all’apparenza potrebbe sembrare contestualizzato in una dimensione temporale cronologica e più precisa; l’anima e come un trasferimento da una cultura ad un’altra, registrata all’interno di un nuovo punto di vista: il mio. Il dipinto è bidimensionale, un campo agonale, quello che potrebbe essere una lavagna di Warburg, con delle immagini in su- perficie che rappresentano interconnessioni, analogie, tra mondi apparentemente lontani; una batteria elettrica del- la memoria capace di attivarsi al primo sguardo, come nei miei dipinti».
MB UN ATTEGGIAMENTO CHE È SEMPRE ESISTITO NEL TUO LAVO- RO, MA CHE ORA PIÙ È EVIDENTE, PROTESO COM’È AD ANDARE OLTRE LA RAPPRESENTAZIONE, ESALTANDO IL SEGNO E LA MA- TERIA. UNA CARATTERISTICA RESA ANCORA PIÙ DICHIARATA NELLA MOSTRA CHE TIENI A MILANO QUASI IN CONTEMPORA- NEA CON QUELLA DI CAPODIMONTE, DOVE PRESENTI PER LA PRIMA VOLTA QUELLA PRATICA SEGRETA DEL DISEGNO CHE DA DECENNI, IN MANIERA ARMONICA, TIENE INSIEME IL TUO FARE TUA PITTURA.
LP «Sono forme di rappresentazione di un fare scientista che si disegna e si sbriciola. Mi sto occupando, pur costituendo nel loro insieme immagini finite, di frammenti, di pezzi di uno sgretolamento che esprimono un’appartenenza al territorio. Sono nato a Milano, un luogo geografico a Nord dell’Italia ma a Sud dell’Occidente, più legato al Mediterraneo che alle lande del Nord. Una terra che da duemila anni è roma- na, cristiana, germanica, un luogo che ha molto costruito e molto distrutto. Questo è il mondo poeticamente minaccia- to, che si può vedere dietro o di fronte ai lavori, una zona di edificazione e conflitto che per me rappresenta il genius loci. Nella mostra a Napoli nel 2007 al Museo Archeologico, in- ventai una sala di 98 dipinti costituiti da vasi che fungevano da contenitori di immagini epiche, di scontri e di incontri. La volontà di rappresentare un insieme attraverso fram- menti si espresse, in questo caso, nell’idea di una sequenza ininterrotta d’immagini che giravano. Chiamai questi reci- pienti Schermi, come fossero delle pellicole».
MB QUESTO TUO ATTEGGIAMENTO È BEN EVIDENTE IN POMPEI, IL LAVORO MONUMENTALE INTORNO A CUI GIRA TUTTA LA MOSTRA DI CAPODIMONTE. QUESTA RAPPRESENTAZIONE TI LEGA AL LUOGO, AL CONCETTO DI CATASTROFE CHE CONTIENE IN SÈ E, ALLO STESSO TEMPO, ESPRIME UN SENSO NUOVO DEL TUO FARE PITTURA?
LP «Ho sempre dipinto Pompei e New York poiché rappresen- tavano estremi opposti ma molto vicini. Nel 1986 mi sono fermato qualche mese a New York, qui ho ritrovato l’im- pianto di una grande città classica fatta di cardini e decu- mani, una città fatta di ingigantimenti come in una novella Babilonia. Pompei rappresenta il momento successivo: la sopravvivenza di una civiltà dopo una grande tragedia. L’e- ruzione del ‘79 richiama al tema, caro alla tradizione, della natura in rovina: ho anche immaginato che la distruzione potesse essere avvenuta anche a causa di un bombardamen- to, e così ho dipinto un B52 americano che sorvola una cit- tà del Nordafrica. Si fa avanti, come una seconda tragedia, l’idea dell’imperialismo militare che prende come bersaglio
il tempio, che rappresenta il dissestamento continuo della guerra. In quest’opera site specific, che innanzitutto è un omaggio alla città di Napoli, mi ha interessato spogliare la situazione da ogni riferimento esteriore, andando diritto all’ossatura. Ho messo in ordine alcuni frammenti (ci sono per esempio decorazioni che appartengono alla casa di Lu- crezio Frontone) di un insieme che rappresenta Pompei, vi- sta attraverso il disfacimento di una tavola sinottica che par- la della città in un’ipotetica enciclopedia. È come se il foglio, caduto in una pozzanghera, si fosse rovinato e poi fosse stato ricostruito. Ho cercato di raffigurare anche l’attenzione che il mondo rivolge a questo luogo, o meglio la disattenzione che fa parte di comportamenti tipici italiani. In alto alla tela c’è scritto “Italia”: gli elementi in disfacimento identificano nel segreto la nobiltà del nostro Paese».
MB LA MEMORIA È ANCHE PREVEGGENZA. QUANDO WARHOL DIPINSE IL VESUVIO, SUGGESTIONATO DALLE FOTOGRAFIE CHE GIORGIO SOMMER FECE IN OCCASIONE DELL’ERUZIONE DEL 1872, GLI CHIESI SE RIUSCIVA A IMMAGINARE UNA COSA SIMILE A NEW YORK: “L’UNICA COSA CHE POTREBBE SOMIGLIARE AL VESUVIO IN ERUZIONE È L’EMPIRE STATE BUILDING CHE VA A FUOCO”, QUASI PRESAGENDO QUELLO CHE SAREBBE SUCCESSO L’11 SETTEMBRE 2001 ALLE TORRI GEMELLE... LA GRANDE TELA POMPEI È DUNQUE UN DISCRIMINE, UNA DICHIARAZIONE DI QUALCOSA CHE STA SUCCEDENDO NEL TUO METODO DI FARE PITTURA?
LP «Pompei un quadro che non è dipinto in alcuna parte, nel senso che non utilizzo il bianco di zinco o il pennello, ma è chiaro che la pittura si fa anche senza dipingere. In questo caso si organizza attraverso uno squilibrio, una pendenza verticale a precipizio, un distanziamento, un modo per im- padronirmi del luogo e della rappresentazione attraverso tecniche non ortodosse. Per quest’opera ho applicato mate- ria su altra materia e, al primo sguardo, mi sono già trovato di fronte a un quadro. La prima volta che mi sono imbattuto in uno di questi grandi teloni ferroviari ho intravisto imme- diatamente quello che già contenevano di un’opera: la parte finita e quella non finita, il dipinto e il non dipinto. Questa Pompei è evocativa di una reale rappresentazione della città. Le applicazioni utilizzate sono lo scheletro, inteso come ani- ma e la forza della struttura; si configurano come il modo di voler dipingere con niente. Volevo trarre suggerimenti rivelando le strutture già contenute dalla tela. In questa di- mensione diventa essenziale la scelta di ciò che è utile e lo scarto di tutto il resto».
MB E DOPO POMPEI CHE COSA VERRÀ?
LP «Ho in mente di realizzare quadri utilizzando uno schiac- ciasassi; tele e colori messi per terra, schiacciati da questo mezzo di tre tonnellate. Lasciare il segno dell’imperfezio- ne, credo sia un gesto primitivo, ancestrale. Non a caso, a sinistra di Pompei ho voluto conservare un buco che già esisteva sulla tela e che ho ricucito: sembra una tavola di Rorschach. Potrebbe essere intesa come il primo tassello di un’altra indagine».