In This Must Be The Place, l’ultimo, bellissimo film di Paolo Sorrentino, Cheyenne, la vecchia rockstar interpretata da Sean Penn, ha smesso da tempo di suonare. Lo convince a riprendere in mano la chitarra un ragazzino che chiede di cantargli This Must Be The Place degli Arcade Fire. Lui lo corregge –“il pezzo è dei Talking Heads”– ma il bambino non sa nemmeno chi siano perché conosce il brano solo nella versione coverizzata della band canadese, oggi famosissima. Questo episodio, in apparenza banale, restituisce il termometro del nostro rapporto con il passato. Da molto tempo abbiamo abdicato a quel ruolo che nel Novecento, dalle avanguardie storiche fino almeno agli anni Ottanta, è stato svolto dal bisogno di nuovo e originale. A noi, attualmente, non importa più formulare un’ipotesi estetica che si ponga al culmine di un processo darwiniano ed evoluzionista, di un tempo che contenga tutte le esperienze precedenti e le superi nell’oggetto in questione. Ci guardiamo più indietro che intorno, non tanto alla ricerca di qualcosa che non ci appartiene e a cui la storia ha attribuito valore, ma come sbalestrati e disorientati dalla mancanza di un ancoraggio forte, di un approdo sicuro. Certo, ci risulta difficile trovare le ragioni nel presente: mancano le certezze, i punti di riferimento, se vogliamo, anche i nemici da combattere.
Per esempio, la storia dell’arte italiana, nell’immediato secondo dopoguerra, ha conosciuto l’episodio della feroce disputa tra la pittura realistica (considerata tradizionale) e quella astratta (intesa come il nuovo). Un fatto del genere, nell’attualità, sarebbe improponibile. Tutto è lecito, nulla è avverso, e persino il fuori moda si alimenta di un certo fascino vintage. Non è più una questione di stile, né di linguaggio, e forse neanche di cose da dire. Il giudizio dell’arte è stato completamente delegato alla cosiddetta teoria del contesto. Sono i luoghi, il loro prestigio, ad avvalorare un’esperienza estetica: i musei, le gallerie, le mostre, i passaggi in asta, l’attenzione dei curatori. Se si ha l’assurda abitudine di parlar di tutto tranne che propriamente di arte, è difficile che le opere vengano analizzate per ciò che si sforzerebbero di dire. Forse non siamo davvero più capaci di prendere un quadro (o una qualsiasi altra espressione artistica) e tentare di dare parola scritta alla sua voce, alla sua urgenza dicomunicare. Ci risulta più comodo affermare che un dipinto rigorosamente bidimensionale ha più legami con il passato, rispetto a un’opera che utilizzi una forma meno diretta e più difficile da catturare. Se poi l’espressione passa attraverso un’immagine (e non una metafora o un simulacro) ciò rappresenta un ulteriore ostacolo verso la piena cittadinanza nel presente. Ecco perché ci torna utile l’episodio della cover: il nostro è un tempo in cui il remake suona più nuovo del nuovo, talmente siamo aggrediti dal bisogno delle convenzioni del passato e del loro comodo rifugio.
La premessa serve per spiegare che il nuovo corso del lavoro di Luca Pignatelli risulta, a mio avviso, una delle proposte più dense e coraggiose in cui mi sono imbattuto negli ultimi tempi. Conoscendolo bene e frequentando il suo studio con una certa assiduità, ritengo Luca l’esatto contrario dell’artista che si muove per stereotipi e convenzioni. Ogni mostra rappresenta per lui una sfida, lo stimolo e l’inquietudine di azzerare qualsiasi formula collaudata, ogni traguardo già raggiunto. E’ un pensare e ripensare a ciò che, nell’abbondanza di una produzione in itinere, da considerarsi compiuta solo al momento in cui esce dall’atelier milanese di via Verbano, verrà scelto perché ritenuto davvero ideale e indispensabile per rappresentare proprio quel pensiero e non altro. Opzione, il più delle volte, totalmente intuitiva, giocata all’ultimo momento, non senza l’ennesimo ripensamento e, forse, un briciolo di insoddisfazione.
Nella mostra allestita nel febbraio 2009 al MAMAC di Nizza, Pignatelli presentava una gigantesca cosmogonia composta da centinaia di carte installate e contaminate dai segni della pittura, un tentativo di comprendere il mondo attraverso una mappa sospesa nel tempo e nello spazio che l’artista ha intitolato Atlantis facendo riferimento sia al suo precedente lavoro Places and Memories, esposto a New York nel 2003, sia al continente misteriosamente scomparso, inghiottito dalle acque. Lo scivolamento nel nulla, l’assenza di ogni memoria reale, documenti compresi, è ciò che ha assicurato all’isola di Atlantide la presenza sempiterna nel mito. Nel presente, afferma Pignatelli con le sue opere, siamo invece costretti, per trovare qualcosa di nuovo, a ricorrere a quel gigantesco archivio mnemonico e iconografico che ci viene da anni di raccolta e conservazione di materiali cercati o casualmente trovati (anche le recenti Analogie appartengono a questa famiglia di lavori). Noi, concreti,in carne e ossa, ancorati al quotidiano, siamo alle prese con il destino incerto di un’identità confusa a cui solo il ricordo potrà dare tregua.
L’“impresa” di Atlantis segnava un distacco profondo dai consueti soggetti della sua pittura, peraltro molto amata dal pubblico, una sorta di spartiacque verso nuove esperienze che lo hanno portato, pochi mesi dopo, ad affrontare la partecipazione al Padiglione Italia della Biennale di Venezia con il meraviglioso trittico legato alla storia della Serenissima in epoca di repubbliche marinare, e ispirato alle suggestioni architettoniche del vecchio Arsenale militare.
Nel novembre 2010, Pignatelli torna con una nuova personale alla Galleria Poggiali & Forconi di Firenze, e il suo lavoro subisce una trasformazione ancor più evidente. Il supporto prescelto è la carta al posto della più consueta tela di canapa, con il conseguente asciugarsi dei toni cromatici caldi e terrosi. Tale raffreddamento si evince anche dal profondo cambiamento iconico, supportato da un’ulteriore ricerca iconografica fra immagini preesistenti e ritagliate, una volta di più, dall’archivio della memoria: la statuaria classica greca risalente al IV secolo, l’età di Pericle, o almeno ciò che ne resta, come raggelante mise-en-scène di una poetica residuale, naufraga, ultima a resistere nell’intemperie di segni contemporanei. Pignatelli ha l’intelligenza di capire che lavorare su figure del passato equivale a muoversi in pericolosissimo bilico sull’orlo di un precipizio in cui si fa in fretta a cadere nel momento in cui si favorisce una lettura classicheggiante e nostalgica. Non conosco artista meno neo-classico di lui: gli echi winckelmanniani del “bello nell’arte” di cui è piena, in maniera talvolta tronfia, la maggior parte della pittura figurativa, gli sono del tutto estranei. Parla, piuttosto, di realtà frantumate, interrotte, ricomposte dal nostro sguardo abituato a far le code davanti ai musei di arte antica e poco avvezzo a considerare che la nostra sfida si chiama “contemporaneo”, “futuro”. L’escamotage, se di questo si può parlare, è che la vita traspira dall’archeologia del nostro essere, mentre nel presente ci troviamo mummificati a causa dell’ambiguo rapporto intrattenuto da sempre con la tradizione. Pignatelli rovescia così il desiderio di un’icona sempiterna e immobile, nella sua operazione di frammentazione della storia che paradossalmente interroga l’attualità.
A proposito di icone, scegliendo questo titolo così pop e mediatico, Icons Unplugged, per il suo nuovo progetto espositivo sbarcato a Roma nella sede dell’Istituto Nazionale per la Grafica, quello storico Palazzo Poli a cui è addossata la Fontana di Trevi, Luca Pignatelli compie un’azione di totale rivolgimento del significato corrente del termine. Siamo infatti abituati a considerare iconica un’immagine forte, frontale, alla quale attribuire un significato simbolico e un valore paradigmatico, spinti tanto dall’interpretazione religiosa formatasi in secoli di pittura sacra, quanto da quel fondamentalismo laico che si identifica il messaggio con il medium. In tal senso la posizione di Pignatelli è clamorosamente antitetica, poiché rifiuta la convenzione per cui le icone identificherebbero quelle tracce che una società debole e decadente usa per spacciare una forza che non ha più ma è pur costretta a mantenere di facciata per non sprofondare. Un tempo, erano immagini di eroi, divini o umani, architetture solenni, carri trainati da cavalli, guerrieri in battaglia. Oggi (dalla Pop Art in poi), sono le figurine patinate della televisione, politici, capi di stato, cantanti rock, stelle del cinema. Facce e corpi a cui il sistema si appiglia per rimandare il processo di disfacimento inevitabile di usi e costumi corruttibili, inadeguati ai cambiamenti. L’analisi di Pignatelli è fredda, lucida, a tratti impietosa: ci troviamo di fronte a dei frammenti (e frammentario è anche il modo di lavorare sui materiali, con cuciture, strappi, fori, usando tutto ciò che serve a dimostrare l’incompiutezza del gesto, la trama non finita oppure il residuo di un’unità persasi nel tempo) che mettono in luce l’assenza più della presenza, la mancanza, a discapito dell’atto definitivo.
L’epoca in cui viviamo, incerta e difficile ma, chissà, foriera di grandi opportunità per il futuro, potrebbe addirittura farci indulgere a una lettura sociologica. Il 476, anno dell’acclamazione del re germanico Odoacre, è stato assunto a simbolo della caduta dell’Impero romano d’Occidente. Senza voler indugiare in parallelismi storici tra passato e presente, discese e risalite hanno sempre fatto parte della storia. Tocca all’artista coglierne l’energia. Nessun decadentismo quindi, ma una forza espressiva e una potenza poetica che confermano, quando ce ne fosse bisogno, che Luca Pignatelli è un artista chiave nel nostro nuovo tormentato e affascinante millennio.